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MEDITERRANEO

L'estate calda dell'espansionismo turco

Distratti dall'epidemia e dalle elezioni americane, non ci stiamo rendendo conto dell'evento più importante e grave di questa estate 2020: il rinascimento ottomano, l'espansionismo turco su tutti i fronti e il ritorno dell'islamismo sul Bosforo. L'Italia tace e mantiene un basso profilo. Ci conviene? La Nato continua a tenere la Turchia al suo interno: per quanto può continuare?

Editoriali 04_09_2020
Esercitazione greche a Creta

Siamo tutti catturati dalle notizie sul Covid. L’unico evento di politica estera che fa notizia è l’elezione presidenziale americana, la cui campagna è punteggiata di violenze e tensioni inter-razziali. Ma uno storico del futuro guarderà all’estate del 2020 come “l’estate calda dell’espansionismo turco”. Anche se l’opinione pubblica italiana vi sta prestando poca o nulla attenzione, il nuovo espansionismo turco riguarda direttamente gli interessi e la sicurezza del nostro Paese.

La Turchia ha contribuito a pacificare la Libia, ottenendo in cambio un protettorato de facto sulla Tripolitania, con due basi militari di cui una a Misurata, a due passi dalle nostre coste. Poi, nella sua ricerca di gas sui fondali marittimi, Erdogan ha iniziato a rivendicare interessi esclusivi nel Mediterraneo orientale in acque che si sovrappongono con la Zona economica esclusiva della Grecia. Lo scontro con Atene è arrivato ad un punto tale che nei quotidiani turchi si leggono argomenti di questo tenore: «se gli sforzi politici e diplomatici falliscono, (la Turchia, ndr) può adottare le misure necessarie in virtù del diritto legale di difesa previsto dall'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Può neutralizzare gli elementi militari uno per uno in aria, mare e terra». Lo afferma sul quotidiano Yeni afak il professor Selami Kuran, docente di Diritto internazionale dell’Università di Marmara. La riflessione dello studioso riflette quel che dice il presidente Erdogan, quando ha avvertito i greci con queste parole: «La Turchia è determinata a fare tutto ciò che serve per ottenere il riconoscimento dei propri diritti nell'Egeo, il Mar Nero e il Mediterraneo» e «Non accettiamo compromessi su ciò che è nostro». Se la Grecia dovesse rispondere, «Sarà la sua rovina».

Benché gli osservatori internazionali dubitino che la Turchia voglia scatenare una guerra contro un Paese almeno formalmente alleato, i piani di Ankara per una guerra contro i greci esistono. O per lo meno sono stati formulati e aggiornati fino a tempi recentissimi. Anche qui la notizia ha suscitato ben poco scalpore. I piani di guerra contro la Grecia e l’Armenia, trapelati per caso nell’ambito dell’inchiesta sul fallito golpe militare del 2016, sono stati preparati come una contingenza, non riflettono l’intenzione di un’invasione imminente dei vicini, ma è già molto grave che esistano. È chiaro poi perché, in occasione di crisi come quella vissuta in queste settimane nell’Egeo, la tensione salga a dismisura. Per deterrente la Francia ha inviato la portaerei Charles De Gaulle nel Mediterraneo orientale, mentre gli Emirati Arabi Uniti, come già sottolineato su queste colonne, contrastano i turchi (e soprattutto il loro alleato Qatar) inviando caccia F-16 a Creta, in difesa dello spazio aereo greco.

Ankara non ha neppure sottoscritto la convenzione di Montego Bay, attraverso la quale si sarebbe potuto risolvere il contenzioso con la Grecia sulle Zone economiche esclusive attraverso un arbitrato internazionale. Al contrario, la Turchia si assegna unilateralmente diritti di sfruttamento, sulla base del suo stesso principio legislativo, quello della cosiddetta “Patria Blu”, che le assegnerebbe ampie porzioni dell’Egeo e del Mediterraneo orientale che, secondo il diritto internazionale, apparterrebbero invece alle Zone esclusive di Grecia e Cipro. Questo modus operandi della Turchia ha già danneggiato direttamente gli interessi economici italiani, nel 2018, quando la nostra nave perforatrice Saipem 12000 era stata fermata da navi da guerra turche, in un’area di mare presso Cipro che solo la Turchia riconosce come propria esclusiva. Allora il governo Gentiloni decise di non reagire, oggi la Grecia (che con la Turchia ha conti in sospeso da sempre) potrebbe non essere altrettanto condiscendente.

La sfida neo-ottomana, come abbiamo già avuto modo di sottolineare su queste colonne, è anche religiosa. La conversione di Santa Sofia da museo nazionale in moschea è molto più di un simbolo. Può essere letta come un’affermazione di superiorità dell’islam, non tanto nei confronti del cristianesimo (visto che era un museo) quanto della laicità turca. Ma anche questa malcelata intenzione non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli. La Turchia nazionalista e laica poteva, al massimo, preoccupare i suoi vicini. Una Turchia che torni al suo disegno ottomano, invece, è una sfida universale. Non a caso il video di propaganda delle forze armate turche, che alterna immagini dell’Impero Ottomano, della Prima Guerra Mondiale e dell’attuale esercito turco (quindi i due miti, quello islamico-ottomano e quello nazionalista di Ataturk, alla base dell’attuale potenza), si sofferma sulla scena dell’ingresso dell’imperatore Maometto II nella basilica di Santa Sofia conquistata all’islam e soprattutto si conclude con il video della Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Cosa vuol dire? Che dopo decenni di alleanza con Israele, Ankara torna a ripresentarsi come protettrice dei luoghi santi dell’islam, a Gerusalemme, evidentemente contro lo Stato ebraico.

Di questo rinascimento ottomano preoccupano soprattutto due aspetti. Il primo riguarda l’assoluto silenzio italiano. Il nostro governo ha accettato una forte presenza turca in Libia. Non ce ne rendiamo ancora conto, ma da questa estate noi confiniamo con la Turchia, in pratica. Siamo pronti a trattare direttamente con Erdogan sul prossimo flusso di emigranti dall’Africa, così come abbiamo già fatto (in ambito Ue) sulla rotta Balcanica? Siamo pronti a pagare, quanto? Siamo poi sicuri che i nostri diritti energetici in Libia siano effettivamente garantiti? Il silenzio, a livello governativo, è motivato dalla delicatezza diplomatica del momento, visto che l’interesse italiano è mantenere e aumentare la presenza militare in Libia. Non si capisce, però, perché l’opinione pubblica, la stampa e i partiti politici anche d’opposizione siano altrettanto silenti. Non si vedono interrogazioni, manifestazioni, né inchieste, poche anche le notizie stesse. Basso profilo pure su quel che sta accadendo nell’Egeo: siamo sicuri che ci convenga tacere, nel momento in cui la Turchia avanza pretese (illegali) ai danni della Grecia? Cosa ci guadagniamo, considerando l’umiliazione che Ankara ci ha già inflitto nel 2018?

L’altro aspetto che dovrebbe preoccupare, non solo noi, ma tutta la Nato, è il ruolo della Turchia nell’Alleanza. Ha ancora diritto di restarvi? Da un punto di vista morale c’è poco da dire, la Nato ha già digerito delle dittature al suo interno, sia in Portogallo che nella stessa Turchia (durante i suoi governi militari golpisti). Preoccupa, piuttosto, la sicurezza del fianco orientale della Nato: che cosa succede se, questa volta, l’escalation fra Grecia e Turchia dovesse andare fuori controllo? E cosa succederebbe in caso di conflitto con l’Armenia, alleata della Russia: la Nato sarebbe disposta a rischiare un conflitto con Mosca? Cosa potrebbe succedere in caso di confronto armato fra Turchia e Israele, come già abbiamo rischiato nel 2010? Per non parlare, poi, della disinvoltura con cui i turchi hanno occupato militarmente una fascia di sicurezza in Siria, a scapito dei curdi (armati dalla Nato anch’essi) e sono intervenuti in Libia, con truppe irregolari di "dubbia provenienza" (eufemismo per indicare milizie jihadiste). In un periodo in cui le tensioni ai confini della Nato sono anche nel Medio Oriente e nel Caucaso, la Turchia è certamente un importante Paese di frontiera, il suo intervento viene richiesto in ogni crisi che riguardi il mondo arabo-islamico, anche in Africa orientale, considerando che sono i servizi turchi che hanno liberato Silvia Romano in Somalia. Però occorre seriamente ripensare al rapporto fra costi e benefici del tenere come alleato una potenza così ingombrante, così imprevedibile e soprattutto sempre più ideologicamente islamista.