"L'equivoco don Milani" e gli effetti del donmilanismo
Una recente opera di sintesi di Adolfo Scotto di Luzio rilegge criticamente la figura e la pedagogia del priore di Barbiana il cui mito ha contribuito non poco alla decadenza della scuola italiana. Pauperismo, anti-intellettualismo, l'odio per le attività ricreative e l'idea che conti solo il sapere pratico sono tra gli ingredienti di una visione riduttiva dell'uomo che mina la stessa idea di scuola e di elevazione culturale.
Con acume e anticonformismo, Marcello Veneziani, su La Verità del 26 maggio 2023, ha contribuito alla doverosa e improcrastinabile demitizzazione di don Lorenzo Milani (1923-1967) a 100 anni dalla nascita.
Effettivamente, come scrive Veneziani, va riconosciuto al sacerdote di Barbiana, l’onore delle armi, tanto da poterlo annoverare tra gli «idealisti generosi». Ma con effetti negativi, specie da quando la sinistra ne ha fatto un idolo, che hanno contribuito alla decadenza della già gloriosa scuola italiana, la quale, anche a causa del donmilanismo e della sua versione sessantottina, «non premia i meriti e le capacità, non educa, non stimola alla cultura e non suscita spirito di missione nei docenti», scrive Veneziani.
Una recente sintesi di Adolfo Scotto di Luzio (L’equivoco don Milani, Einaudi, 2023) conferma la necessità di una rilettura critica sia della sua figura che della sua pedagogia, divenute un «elemento costitutivo» dell’alleanza culturale tra gli eredi del Pci e i figli del cattolicesimo progressista (p. X). Basteranno qui alcuni passi del saggio di Scotto Luzio, non per demonizzare una figura che ha avuto una sua grandezza, ma per restituire il prete di Barbiana alla storia. L’agiografia – se vogliamo essere seri – non fa per lui.
Secondo don Milani, «la scuola fallisce perché insegna cose che non interessano al povero» (p. 4). Essa dovrebbe insegnare «ciò che serve alla vita quotidiana» (p. 5). «Solo ciò che serve alla vita e che supera la prova», scrive l’autore sintetizzando il pensiero del pedagogista, «è degno di essere insegnato» (p. 66). Quindi, «Omero e Dante [per non dire l’insieme della letteratura mondiale] sono una perdita di tempo» (p. 66). Assolutamente falso. La cultura non è riducibile all’utile e alle scienze pratiche, altrimenti la filosofia, la storia, l’arte e la stessa matematica, snobbata a Barbiana (cf. p. 13), andrebbero cancellate, ridotte o soppresse. La vita non si riduce al solo lavoro.
«Da più parti», nota l’autore, «si ripete: senza uguaglianza non c’è merito. La frase fa effetto. Ma è vero anche il contrario. Ovvero, senza merito non c’è uguaglianza» (p. 5). Le differenze economiche non devono costituire pregiudizio per l’istruzione dei meno abbienti: sacrosanto. Ma le differenze di attitudini e impegno restano. Se tutti fossero Einstein o Dante (disprezzato a Barbiana), nessuno lo sarebbe. «La scuola che ha smesso di bocciare [anche a causa del donmilanismo…], non ha smesso di selezionare», lamenta l’autore (p. 127).
Contrariamente al donmilanismo di oggi e di ieri, «per don Milani la base dell’educazione era il Vangelo» (p. 5, 11). «La scuola per don Milani è il presupposto necessario per ascoltare la voce di Dio […]. Per don Milani non si può essere compiutamente cristiani se non si è istruiti” (pp. 69-70). «L’istruzione è funzione dell’evangelizzazione» (p. 60). Ha ragione l’autore a dire che «per i molti donmilanisti attualmente in servizio, il riferimento cristiano non è più così cogente» (p. 5). Si usa don Milani in chiave egualitaristica e anti meritocratica, cancellando quel che non piace – e sono spesso i tratti migliori – e aggravando le ambiguità presenti nella sua pedagogia strampalata. Erra però l’autore quando scrive che «i riferimenti di don Milani restano la dottrina sociale della Chiesa e Leone XIII» (p. 110). Erano i riferimenti comuni dei cattolici del tempo, mentre don Milani, pur conoscendoli, li ha riletti alla luce del proprio pensiero in cui il Vangelo era associato a ideologie mondane di marca umanitarista.
Il libro fa a pezzi il presunto anti-autoritarismo di don Lorenzo (cfr. pp. 14 ss.): il sacerdote non sempre si esprimeva in senso metaforico quando parlava di «colpire» i ragazzi o «cazzottarli» (p. 18). Si vanta di aver usato le maniere forti con un discolo, dopo che un suo amico lo aveva «curato a botte come le sa dar lui» (p. 18). Secondo l’autore, don Milani «odiava il pallone, le partite di calcio, il tifo, ma anche i bar parrocchiali» (p. 22) e in generale le «ricreazioni» in quanto tali (cf. p. 38-39). Mancanza quindi totale di equilibrio, al contrario di altri pedagoghi da Muratori a Rosmini, da don Bosco a Maria Montessori.
Il suo pauperismo – come se la povertà materiale di per sé fosse indice di purezza interiore – lo portava ad unilateralismi che neppure un asceta avrebbe fatto propri. Il saggio offre pagine intense sull’anti-intellettualismo: per don Milani il povero contadino non ha bisogno dei libri, gli bastano i campi, svalutando definitivamente ogni elevazione culturale e mina alla base la dignità dello studio e la stessa scuola dell’obbligo. Perché obbligare il ragazzo a stare in classe se lui preferisce andare a spasso e fare esperienze ugualmente formative?
Se il povero è canonizzato a priori (anche senza merito), a priori viene condannato il ricco o il potente (anche senza colpa): due riduzionismi che la dicono lunga sulla sua pedagogia di don Milani. «Ogni livellamento è una svalutazione di ciò che prima stava in alto», nota giustamente l’autore. Il quale, pur da laico assolutamente non devoto, deve ammettere che il prete gli appare, malgrado il suo pauperismo e popolarismo, intriso di «illuminismo» e in fondo «più liberale che cattolico» (pp. 43-44). «Come, non senza qualche ragione, gli rinfacceranno i suoi nemici nella Chiesa» (p. 44, nota 11 sul card. Florit).
Negli scritti del priore di Barbiana vi è il trionfo della volgarità. Un solo esempio emblematico. Nella celebre e indigesta Lettera a una professoressa (1964), la professoressa è chiamata tr..a. E se la parola fu alla fine soppressa e censurata, lo fu solo “perché l’editore non la vuol stampare” (p. 78). Visti i tempi pre-sessantottini, si può immaginare la scurrilità nella mente del prete, che appare anche qui più conforme alla decadenza del linguaggio tardo-novecentesco che alla delicatezza del vero educatore.
A Barbiana la grammatica era considerata cosa dei ricchi, delle élite, eccetera. Ma è proprio la grammatica che «abilita a parlare pensatamente» (p. 84). E lo scrivere bene, detestato dal prete, «non è un mero esercizio retorico o di stile. È applicazione della mente, disciplina intellettuale» (p. 84).
La lettura donmilanesca della scuola e della cultura in modo dualistico e manicheo – ricchi e borghesi contro poveri e contadini – crea una assurda lotta di classe ed «espropria il popolo della possibilità di farsi esso stesso classe dirigente» (p. 87). Il che invece è accaduto tante volte proprio con la demonizzata scuola gentiliana. Dal padre contadino e operaio al figlio avvocato, docente, politico e ingegnere: storie comuni nell’Italia del Novecento per essere negate da alcuno.
Il saggio si chiude chiedendosi cosa resta di Barbiana e la risposta è: il nulla. «Barbiana ha semplicemente chiuso i battenti» (p. 123). E «dov’è la scuola di don Milani? Che fine hanno fatto i suoi seguaci? Al massimo amministrano la sua memoria, ma poco altro» (p. 123).
Nonostante le tante riserve, Scotto di Luzio parla della «notevole caratura morale della sua personalità» (p. 134, n. 23). E questo può dirsi anche di un pedagogista che ha contribuito, in parte suo malgrado, alla decadenza della scuola italiana e all’eclissi dell’autorità morale del docente e del maestro.