L'ennesima carneficina che fa a pezzi il mito del progresso
Un delitto terribile avvenuto in Germania sembra riportarci a un "passato" remoto e sanguinoso, che però è il presente. "Siamo nel Duemila e ancora succedono certe cose?", è la prima reazione a caldo, indice però di una irrazionale fede nel futuro (non ammessa ma capillarmente diffusa), che nonostante le tragedie della storia e della cronaca è sempre pronta a riaffiorare e a essere smentita.
L’ennesimo, terribile fatto di cronaca viene dalla Germania dove una donna ha cercato e ucciso una sua sosia per inscenare la propria morte, stando alla possibile ricostruzione del movente (non esclusa anche una possibile gelosia sorta tra le due ragazze). Il fatto risale al 16 agosto ma solo in questi giorni è venuta a galla la verità.
Sarebbe stata pronta a tutto la 23enne tedesco-irakena Shahraban K., pur di sottrarsi alla tutela dei genitori, anche a fingersi morta e a uccidere per raggiungere lo scopo. Per settimane, con la complicità del fidanzato Sheqir Q., ha cercato e infine trovato una coetanea che le somigliava quasi alla perfezione, Khadidja O, di origine algerina. I due l’hanno contattata su instagram e incontrata col pretesto di parlarle di cosmetici – pretesto più che plausibile: estetista l’assassina, fashion blogger la vittima. Khadidja è stata quindi massacrata con 50 coltellate, badando bene a sfigurarne il volto per renderne più approssimativo il riconoscimento.
Il cadavere è stato poi trovato nella loro auto, così che a prima vista quella ragazza uccisa non poteva essere altri che lei: somigliante, stessi capelli, stessa corporatura. E i suoi genitori hanno creduto di riconoscere nel cadavere la propria figlia. Nonostante tutto, esteriormente, facesse pensare a lei, sin dall’autopsia sono affiorati dubbi sulla vera identità della ragazza uccisa, facendo sì che oltre a indagare sul delitto in sé, si indagasse anche su chi davvero ci fosse dietro il cadavere attribuito a Shahraban – e dove fosse finita davvero la defunta, che non era più tale. La scoperta della singolare somiglianza tra vittima e carnefice aggiunge ulteriore orrore a quello già grave di suo delle decine di colpi inferti a Khadidja per la sola “colpa” di somigliare a Shahraban. Macabre le circostanze e macabra l’esecuzione. Una scena del crimine che pare evocare qualche “passato” remoto, oscuro e sanguinolento, che però non si decide a passare, anzi si rinnova ogni giorno nelle pagine di cronaca nera.
“Siamo nel Duemila e ancora succedono certe cose?”: è la prima reazione che si sente dire, a caldo. Ora, nessuno interrogato in proposito ammetterà di credere nel luogocomunismo per cui noi “evoluti” saremmo più “buoni” e incapaci di quella "barbarie" che siamo soliti attribuire a secoli e millenni ormai trascorsi. E allora perché stupirsi se nel fantomatico “Duemila” accadono anche (non solo) cose brutte? È un mantra ripetuto almeno dagli anni Novanta, da quando cioè abbiamo cominciato a sentirci “gente del Duemila”, cioè di un futuro che si pensava (e si pensa tuttora inconsciamente) caratterizzato da un tale avanzamento tecnologico e materiale, che l’uomo plasmato da esso non potrà che essere migliore in vista di un messianismo tutto terreno, un'impossibile perfezione proiettata in questo mondo. In una parola: è il progresso. Meglio ancora: la cieca fiducia nel progresso, fondata su un diffuso “mito del buon moderno” quale variante del settecentesco “mito del buon selvaggio”. Un parallelismo che si trova espresso nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI: «Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare l'utopia di un'umanità tornata all'originario stato di natura sono due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità».
All’insegna della fiducia nelle “magnifiche sorte e progressive” era iniziato il “secolo breve” del Novecento, ma le luci della Belle Époque si spensero violentemente di lì a poco nella carneficina di massa della Prima Guerra mondiale, l’«inutile strage» invano denunciata da Benedetto XV. Piaccia o meno, anche il progresso contribuì alla portata distruttiva del conflitto: la “guerra chimica” vi fece il suo esordio, grazie alle “innovazioni” belliche di Fritz Haber, ardente interventista e Premio Nobel per la Chimica nonché padre delle armi chimiche. Ci vedeva più lontano sua moglie Clara Immerwahr, che ne condivideva la professione ma non accettava la metamorfosi letale della scienza che avveniva tra le mani di suo marito. Clara morì suicida nel 1915 mentre Fritz festeggiava i primi “successi” in campo bellico. L’indomani lo scienziato non andò neanche al funerale, ma tornò subito al fronte per verificare che i suoi gas facessero effetto.
Qualcosa era andato storto in quel futuro che si presagiva inesorabilmente radioso, annunciato dagli sbuffi dei treni a vapore e da mille altre novità che hanno reso la nostra esistenza decisamente più comoda, ma non per questo automaticamente migliore. Abbiamo – grazie a Dio e all’ingegno umano – trasporti rapidissimi, possibilità di comunicazione impensabili, ma l’uomo è sempre lo stesso col suo impasto di bene e di male e quella meravigliosa dote della libertà che, come l’elettricità, può illuminare se usata bene o folgorare se usata male. Perché a salvare l’uomo (persino da sé stesso) non è il progresso materiale, colmo di straordinarie possibilità di miglioramento e purtroppo anche di enormi potenzialità di distruzione, di cui sono colmi i libri di storia e le pagine dei giornali.
Siamo nel “Duemila” e accade quello che accadeva nel mille e ottocento e anche nell’ottocento senza il mille e nell’ottocento avanti Cristo. Solo una mitizzazione del progresso può pensare che la Storia vada avanti verso un bene indefinito. Purtroppo, «gli esempi concreti sono i carnefici delle idee astratte», scriveva Nicolás Gómez Dávila. E spesso la carneficina è fin troppo reale e sanguinaria, facendo a pezzi insieme alle povere vittime anche quel mito, sempre meno verosimile man mano che il presente (cioè, il “futuro” di ieri) si rivela molto meno radioso delle attese. Quella modernità “prometeica”, che prometteva un paradiso in terra in cui si potesse fare a meno di Dio, non ha mantenuto le promesse, anzi, sradicando la dimensione religiosa ha tolto semmai l’unica possibile risposta all'eterno problema del male.