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Legge elettorale e quote rosa, l'ennesimo inganno

Una novantina di deputate insistono per l'obbligo di liste elettorali con il 50% di candidate donne. Ma la parità di opportunità sancita dalla Costituzione si riferisce alla condizione di partenza, non di arrivo.

Politica 10_03_2014
Laura Boldrini

I colori dei partiti forse a breve non ci saranno più. Il Parlamento potrebbe tingersi in futuro solo di due tonalità, l’azzurro e il rosa. I colori della “parità di genere”.

Settimana scorsa è stato bocciato l’emendamento proposto alla legge elettorale in questi giorni all’esame alla Camera e che prevedeva la possibilità di «esprimere fino a due voti di preferenza e, nel caso in cui vengano espressi entrambi, essi devono riguardare due candidati di sesso diverso compresi nella stessa lista, pena l’annullamento del voto di preferenza», nonché l’obbligo di avere il 50% di presenze femminili tra i capolista.

Nonostante la bocciatura i giochi non si sono chiusi e una novantina di deputate bipartisan, insieme ai presidenti di Camera e Senato, ha sottoscritto una lettera appello inviata ai principali leader politici “per promuovere la presenza femminile nelle istituzioni e per dare piena attuazione all'articolo 3 e all'articolo 51 della Costituzione”.

Stessa musica nelle parole della presidente della Camera Laura Boldrini che venerdì scorso ha precisato: «Ce lo dice la Costituzione, […] ci sono due articoli della Costituzione, il 3 e 51, che parlano di parità e la parità passa anche per una legge elettorale che tenga presente questo aspetto».

Parrebbe quindi che fino a ieri la nostra legge elettorale sia stata incostituzionale. Ma non è così. Andiamo infatti a vedere cosa dicono questi articoli della Costituzione invocati dalle parlamentari. All'art. 3 possiamo leggere che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono “l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica del paese”. L'art. 51 stabilisce che "tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". Infine c’è un altro articolo che interessa il tema in oggetto, il 117: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne […] e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.

Questi articoli in fondo dicono tutti la stessa cosa: parità di condizioni di partenza, ma non di arrivo. Parità nell'accesso alle cariche politiche ma poi che vinca il migliore. Cioè uguaglianza nelle condizioni iniziali di accesso alla cariche elettive, ma non parità di risultati, perché questo dipende dal merito, dall’esperienza, dalla professionalità di chi si propone ad entrare nelle liste. Tutte qualità che saranno valutate dai responsabili dei partiti politici e che non potranno determinare a priori un inserimento in lista di un numero identico di candidati maschi e candidate femmine.

L'ordinamento giuridico in questo come in altri casi (es. libera concorrenza) deve assicurare che tutti possano mettersi in gioco, ma il risultato finale - chi verrà eletto o inserito in lista - deve dipendere dalla propria competenza, non dal sesso. È un po' come assicurare a tutti coloro che vogliono correre una maratona di partecipare con la garanzia che la quota di iscrizione sia identica per tutti, che il tracciato non sia più lungo per alcuni e più corto per altri e che le regole della competizione siano uguali per ogni partecipante. Ma poi sta al singolo concorrente arrivare al traguardo, non può essere portato a spalla dagli organizzatori della maratona perché non sa correre veloce quanto gli altri. Questo trattamento di favore annullerebbe il senso della gara stessa: verificare chi è il più bravo. Così come per la parità all’accesso all’educazione scolastica: ciò non deve comportare che poi i promossi debbano essere 50% maschi e 50% femmine e così i bocciati. Bensì significa offrire a tutti gli strumenti di base dell’educazione, ma poi sta al singolo farsi valere e primeggiare.

C'è un solo caso in cui, secondo il principio di sussidiarietà, lo Stato interviene favorendo il singolo, quando questi ha un gap fisico, psichico, sociale, economico che non gli permette di esercitare da sé o insieme ad altri privati i propri diritti fondamentali: ecco il perché degli aiuti economici alle famiglie indigenti, dell'assistenza sanitaria nazionale, dell'educazione pubblica, di alcuni trattamenti di favore in ambito amministrativo (parcheggio per disabili). Ma in questa prospettiva chiedere le quote rosa allora sarebbe la firma che la donna in quanto donna è un minus habens rispetto all'uomo, è un’handicappata politica e necessita di un aiuto per arrivare laddove lei da sola non potrebbe mai arrivare. In questo senso l'emendamento proposto va ad affermare quanto invece vorrebbe sconfessare cioè che uomo e donna non sono uguali (l'uguaglianza è data poi per dignità, non per attitudini) e che le donne hanno bisogno dello Stato per colmare una lacuna connaturata al mondo femminile. Insomma chi vuole le quote rosa ammette che la donna vale meno dell’uomo.

Va da sé che, se passa questa proposta in rosa, a seguire dovremo assicurare altre “parità di genere”: ricchi-poveri, giovani-anziani, atei-credenti, sani-malati, stupidi-intelligenti, etc., tutti doverosamente rappresentati in Parlamento al 50%. La prima categoria, dopo quella femminile, che chiederà anche lei parità di rappresentanza sarà comunque quella delle persone omosessuali. Significativo a tal proposito che ora non si parla più di quote rosa, bensì di “parità di genere” espressione che nell’uso comune ormai interessa più il mondo gay che quello femminile. E dunque magari non domani, ma dopodomani essere donna e pure lesbica forse pagherà assai in termini di voti e di privilegi politici.