Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Policarpo a cura di Ermes Dovico
Ora di dottrina / 152 – Il supplemento

L’autorità della Chiesa, necessaria per confermare i fratelli

L’ufficio di ammaestrare tutte le nazioni prosegue con i successori degli Apostoli: non ha perciò senso pensare che il Signore, una volta finita l’epoca apostolica, potesse lasciare la Chiesa priva di un’autorità normativa valida per tutti i fedeli. Di qui, il ruolo essenziale del Magistero.

Catechismo 23_02_2025

Nell’ultimo articolo abbiamo cercato di indagare lo stretto rapporto tra Scrittura e Tradizione, e come siano le stesse Scritture ad attestare l’esistenza di una Tradizione normativa. Ma abbiamo anche messo in luce che, fin dagli inizi della storia della Chiesa, si è dovuto affrontare il problema delle false tradizioni, che, sovrapponendosi alla vera Tradizione, hanno minato le fondamenta della fede. Fu un problema che dovette affrontare già nostro Signore, come testimonia il Vangelo a proposito delle tradizioni degli uomini che tradivano la parola di Dio. Di fronte ai farisei, i quali si lamentavano che i discepoli del Signore trasgredivano la «tradizione degli antichi» non lavandosi le mani prima di prendere cibo, Gesù aveva rivelato la loro ipocrisia nell’interpretare il senso dell’offerta sacra a Dio, il Korbàn (cf. Mt 15, 1-9).

Contrariamente a quanto una certa predicazione non si stanca di ripetere, in questo passo il Signore non ha puntato il dito contro il valore della Tradizione, né ha affermato la superiorità delle Scritture su quest’ultima e neppure ha negato la sacralità dell’offerta fatta a Dio, eliminando così il principio del sacro. Quello che Gesù ha severamente colpito in questa disputa è la completa misinterpretazione della legge di Dio relativa al Korbàn, in nome di una tradizione umana animata da avidità di denaro e ipocrisia. Dunque, di fatto Gesù, di fronte all’insidia farisaica, ha operato un discernimento tra vera e falsa Tradizione, mostrando dunque la necessità di una parola autorevole e definitiva non solo per la corretta interpretazione delle Scritture (le diverse offerte sacre, korbanoth, erano infatti prescritte dalla Torah), ma anche per comprendere quali tradizioni provengono dagli uomini e quali invece da Dio.

Il Signore ha trasmesso agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare tutte le nazioni (cf. Mt 28, 19), non solo come prosecutori della sua opera, ma anche come coloro che agiscono in suo nome, ossia con la stessa autorità del Maestro. E gli Apostoli hanno operato nella consapevolezza di questa autorità: «Noi fungiamo quindi da ambasciatori di Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo» (2Cor 5, 20). È ancora San Paolo ad esprimere la consapevolezza dell’autorità magisteriale a lui trasmessa da Cristo, che ogni apostolo dovrà esercitare «distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza a Cristo» (2Cor 10, 5).

L’obiezione che normalmente viene mossa in ambito protestante è che in realtà quello degli Apostoli sarebbe stato un carisma personale, non trasmissibile; alla loro morte, pertanto, sarebbe venuta meno un’autorità magisteriale vincolante e la custodia-trasmissione della fede sarebbe ora compito di tutti i cristiani, senza distinzioni legati ad una particolare autorità e, soprattutto, senza che alcuno possa vincolare altri all’obbedienza della fede.

Il minimo che si possa dire della suddetta posizione è che essa appare senza senso. Si dovrebbe infatti ritenere che il Signore, tramontata l’epoca apostolica, avrebbe lasciato la sua Chiesa senza alcuna autorità normativa per dirimere gli inevitabili dissidi dottrinali interni, senza alcun «carisma certo della verità» per dirigere lo sviluppo della comprensione dell’insegnamento del Signore. Di fronte all’insidia dei giudei come dei falsi fratelli, la Chiesa sarebbe stata sguarnita di un’autorità capace di confermare i fratelli nella fede. L’espressione virgolettata proviene dall’Adversus hæreses (IV 26, 2) di Sant’Ireneo di Lione, che contrapponeva alle novità degli eretici, in particolare gli gnostici, appunto questo carisma affidato non ai soli Apostoli, ma alla «successione del ministero episcopale». Dunque, anche i primi successori degli Apostoli avevano la consapevolezza che con il venir meno del carisma apostolico non si era però estinto il ministero apostolico, trasmesso ad alcuni scelti e consacrati mediante l’imposizione delle mani.

Ancora, il minimo che si possa dire è che la pretesa auto-evidenza delle Scritture e l’univoca interpretazione del depositum sono smentite costantemente dalla storia della Chiesa; a chi spetterebbe dunque dirimere le questioni per custodire la retta fede e l’unità del gregge di Cristo? Agli esegeti e ai biblisti, in continua divergenza tra loro, le cui interpretazioni “assolutamente certe” – giunte fino all’affermazione di ritenere impossibile dire alcunché sul Cristo della storia – vengono sistematicamente ridimensionate, quando non smentite qualche anno dopo? Ad una presunta interpretazione della maggioranza dei cristiani, così facilmente incline nel seguire ogni genere di nuova dottrina, inculcata tramite un’abile propaganda?

San Paolo aveva ben presente, infatti, che ben presto sarebbe venuto il giorno «in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Tm 4, 3-4). Per questo non in generale ai fedeli, ma a Timòteo, sul quale egli aveva imposto le mani costituendolo vescovo della comunità cristiana di Efeso, si rivolge, esortandolo: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Tm 4, 2). A lui, e non al popolo di Dio in generale, viene rivolta la raccomandazione di custodire il deposito (cf. 1Tm 6, 20).

Questo evidentemente non significa negare che ogni cristiano, secondo la responsabilità che esercita nella Chiesa e secondo le proprie capacità, sia tenuto a custodire il deposito e trasmetterlo; significa invece che «la conservazione inalterata del Vangelo non può essere garantita soltanto attraverso le forze umane le quali non sono immuni dalle alterne vicende della storia» (Leo Scheffczyk, Fondamenti del dogma, 2010, p. 137). Il Magistero della Chiesa, infatti, altro non è che un insegnamento che gode della particolare assistenza dello Spirito Santo, affinché nei secoli l’annuncio del Vangelo cresca e si sviluppi, senza alcuna corruzione o diminuzione.

Per questa ragione, con grande saggezza, la Chiesa insegna che il Magistero costituisce la “regola prossima della fede”; non la regola ultima, perché il Magistero è sottomesso all’autorità delle Scritture e della Tradizione, ma regola prossima, senza la quale sia le Scritture che la Tradizione finirebbero per essere lacerate da interpretazioni individuali e contrapposte. Proprio per la sua funzione di piamente ascoltare, santamente custodire e fedelmente esporre la parola di Dio, scritta e trasmessa (cf. Dei Verbum, 10), questo Magistero, nelle diverse modalità del suo esercizio partecipa, secondo gradi differenti, di quel «carisma di verità» di cui Cristo ha ornato la sua Chiesa. Solo in questo modo è possibile che l’insegnamento del Signore non venga alterato, corrotto, manipolato, ma possa invece illuminare ogni secolo della storia umana, ogni cultura e ogni persona.



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