Ennesimo sciopero generale per motivi politici, i cittadini pagano
I sindacati di base proclamano lo sciopero generale oggi, solita paralisi di tanti servizi essenziali. I sindacati protestano per motivi politici, i cittadini pagano il disservizio. Serve una riforma, anche evitando le soluzioni più estreme (schedature).
Oggi e venerdì 12 dicembre l’Italia si fermerà: due scioperi ravvicinati, destinati a creare disagi imponenti per milioni di cittadini. Oggi a scendere in piazza saranno i sindacati di base Cobas, Usb, Sgb e Cub, che hanno proclamato una mobilitazione nazionale per chiedere “massicci investimenti” nella sanità, nella scuola, nell’università e nei trasporti, insieme al “taglio drastico” delle spese militari, alla “stabilizzazione di tutti i precari” e al rinnovo dei contratti con aumenti salariali “adeguati per recuperare almeno l’inflazione reale”. Una piattaforma ampia, che tocca molteplici fronti e che denuncia una gestione considerata inadeguata delle risorse pubbliche.
Ma il vero terremoto politico e sociale arriverà fra due settimane, il 12 dicembre, quando lo sciopero generale – sostenuto questa volta dalla CGIL guidata da Maurizio Landini, sempre più critica verso la manovra economica – rischierà di paralizzare gran parte del Paese, aggravato dal fatto che il giorno successivo la UIL ha annunciato una grande manifestazione a Roma.
Queste due date, entrambe curiosamente fissate di venerdì e distanti appena quattordici giorni l’una dall’altra, rappresentano un punto di tensione che riapre il dibattito sul funzionamento dello sciopero in Italia, sulla sua utilità e soprattutto sui suoi effetti reali.
Il diritto di sciopero è un pilastro dello Stato democratico, ma quando le azioni di protesta non riescono a colpire davvero il governo o le grandi aziende – i veri destinatari del messaggio sindacale – e finiscono invece per schiacciare pendolari, famiglie, studenti, malati, lavoratori del settore pubblico e privato, allora diventa inevitabile interrogarsi su come questo diritto possa essere esercitato senza trasformarsi in un boomerang sociale.
I disagi provocati dagli scioperi sono ormai un elemento ricorrente: linee ferroviarie ferme, autobus soppressi, voli annullati, traffico congestionato, visite mediche saltate nonostante fossero prenotate da mesi, insegnanti impossibilitati a raggiungere la scuola e studenti costretti a rinunciare a lezioni, verifiche, esami. Tutto ciò mentre né il governo né le imprese subiscono un danno concreto, se non quello mediatico, che spesso si traduce in un semplice rimbalzo di dichiarazioni politiche.
La protesta si scarica così sul cittadino comune, già provato da un contesto economico complesso, che vede nelle agitazioni non una forma di tutela, ma un ulteriore ostacolo alla propria vita quotidiana. È evidente allora che non si può continuare a ignorare un problema ormai strutturale: lo strumento dello sciopero, così com’è regolato, non riesce più a bilanciare il diritto di protesta con il diritto dei cittadini a usufruire di servizi essenziali.
La legge n.146 del 1990, emanata per garantire i servizi pubblici durante le agitazioni, oggi mostra tutta la sua inadeguatezza. Le “fasce protette”, che dovrebbero assicurare una minima continuità, spesso vengono disattese o risultano insufficienti. Le autorità non hanno strumenti efficaci per assicurare la mobilità dei cittadini e ogni sciopero nei trasporti rischia di trasformarsi in un blocco totale.
È chiaro che serve una riforma, non certo quelle ipotesi estreme e inaccettabili come la “schedatura preventiva” dei lavoratori che intendono scioperare, circolata nei giorni scorsi, ma un intervento serio, capace di tenere insieme i diritti dei lavoratori e quelli degli utenti. Occorre prevedere meccanismi più rigidi per garantire la continuità nei settori essenziali, più trasparenza nella comunicazione, limiti temporali più stringenti – perché è evidente che scioperi fissati a ridosso delle festività e sempre di venerdì producono un impatto abnorme sulla vita delle persone – e soprattutto un sistema che impedisca il ripetersi di paralisi pressoché totali. Due scioperi in quattordici giorni, in pieno periodo pre-natalizio, equivalgono non solo a un grave disagio, ma a un segnale politico che rischia di colpire l’opinione pubblica più dei destinatari istituzionali delle proteste.
Non si tratta di negare il diritto di sciopero, né di ridurre la libertà sindacale, ma di riconoscere che un Paese moderno non può permettersi che ogni vertenza – pur legittima – si trasformi in una penalizzazione degli stessi cittadini che si vorrebbe rappresentare o difendere. Una riforma equilibrata, che salvaguardi il potere contrattuale dei lavoratori senza sacrificare la mobilità, la salute e il diritto allo studio, è ormai indispensabile. Perché se lo sciopero deve restare un’arma democratica, allora dev’essere anche un’arma responsabile, capace di parlare al governo senza colpire ingiustamente chi ogni giorno cerca solo di portare avanti la propria vita.
In mancanza di ciò, il rischio è che lo strumento si ritorca contro i sindacati stessi, già fortemente in crisi e delegittimati, alimentando un crescente malcontento sociale e indebolendo la credibilità di chi rivendica diritti ma finisce per compromettere, con modalità eccessive, quelli dei cittadini che non possono permettersi di restare ostaggi di ogni nuova mobilitazione.

