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PIANO MATTEI

Condonare il debito non è la cura giusta per gli africani

Al G20 la premier Giorgia Meloni illustra il Piano Mattei. Un programma nuovo che però si basa su una filosofia vecchia, cioè il condono del debito agli Stati africani. Non si affrontano i problemi profondi di corruzione e violenza tribale.

Esteri 28_11_2025
Giorgia Meloni con Cyril Ramaphosa (La Presse)

Al G20 che si è appena concluso in Sudafrica Giorgia Meloni ha preso la parola per confermare il programma di cooperazione bilaterale con 14 paesi africani, secondo le linee guida decise nell’ambito del Piano Mattei, e per annunciare un piano di riduzione e riconversione dei debiti contratti con l’Italia dai paesi africani più poveri.

«Deve essere chiaro a tutti – ha detto il nostro premier – che i partenariati sono reali solo quando sono paritari e generano benefici a tutti gli attori coinvolti. Questa è la filosofia che ha guidato l'Italia attraverso la lente del Piano Mattei per l'Africa. Un modo nuovo di guardare al continente africano, non come un problema ma come una opportunità; non fare lezioni dall'alto verso il basso, ma con rispetto. Si tratta di un’iniziativa che coinvolge già 14 Nazioni africane – numero che intendiamo aumentare ogni anno – e che può contare su sinergie ben strutturate con l’Unione Africana, le Nazioni Unite, le istituzioni finanziarie internazionali e l’Unione Europea con il Global Gateway».

Non si può che concordare le sue parole, anche se la “filosofia” che guida il Piano Mattei non si può definire nuova. La cooperazione internazionale allo sviluppo che tante risorse riversa sui paesi asiatici, africani e del centro e sud America da decenni è nata proprio con questa missione, più volte tradita, senz’altro, ma mai rinnegata dai paesi donatori, o almeno da quelli occidentali. 

«Le priorità sulle quali investiamo sono condivise con le Nazioni africane, e sono reali – ha proseguito Giorgia Meloni – Salute, agricoltura, acqua, infrastrutture, e soprattutto formazione. Perché nulla si può fare se non si valorizza il capitale umano. Come tutti sanno, penso che nessuno possa davvero pensare di aiutare il continente africano semplicemente accettando che centinaia di migliaia di giovani africani paghino i trafficanti per raggiungere l'Europa. Per questo, insieme alla Nigeria, e in partenariato con la Global Partnership for Education, abbiamo lanciato una campagna per raccogliere 5 miliardi di dollari e migliorare l’istruzione di 750 milioni di bambini in diverse Nazioni».

A questo proposito, invece, l’enorme punto interrogativo è l’effettiva condivisione delle priorità da parte dei governi africani e in particolare di quelli già coinvolti nel Piano Mattei e degli altri che lo saranno. Il primo dubbio deriva dal fatto che, se davvero queste fossero le priorità, molti i paesi africani, se non tutti, sarebbero in grado di perseguirle senza bisogno di aiuti esterni. L’Angola, ad esempio, dove il premier si è recata al termine del G20, è stata inclusa nel Piano Mattei quest’anno. Ha poco più di 39 milioni di abitanti. Produce petrolio dal 1955 e in certi periodi ne ha esportato persino più della Nigeria che è il primo produttore africano. Isabel, la figlia del precedente capo di Stato, Josè Eduardo dos Santos che fu in carica dal 1979 al 2017, è stata la prima donna africana a diventare miliardaria, la più ricca fino all’uscita di scena del padre che le aveva affidato la direzione della Sonangol, la compagnia petrolifera statale. Per molti anni l’Angola ha registrato una crescita economica tra le più rapide del mondo, spesso con una crescita del Pil a due cifre (il massimo storico fu nel 2007, 23,7%). Ma non c’è settore della vita economica e politica che non sia contaminato dalla corruzione.

Un altro dei paesi inseriti nel Piano Mattei quest’anno è il Tanzania. Il paese è andato alle urne per eleggere il capo dello Stato il 29 ottobre. Il presidente uscente, Samia Suluhu Hassan, che si è candidato, ha vinto con il 97,66%, una vittoria schiacciante. Ma l’ha ottenuta sbarazzandosi degli avversari. Per oltre un anno le opposizioni sono state oggetto di una repressione brutale e sistematica: centinaia di dissidenti sono stati arrestati, rapiti, torturati, uccisi o sono scomparsi. Chadema, il principale partito di opposizione, è stato addirittura messo al bando e il suo leader, Tundu Lissu, è in carcere dallo scorso aprile. È accusato di alto tradimento, un reato punibile con la morte. Il candidato presidenziale Luhaga Mpina, leader dell’altro maggiore partito di opposizione, ACT-Wazalendo, è stato escluso dalla Commissione Elettorale accampando motivi tecnici.

La popolazione ha reagito organizzando il giorno del voto e in quelli successivi oceaniche manifestazioni di protesta nelle principali città. A nulla è valso. Polizia ed esercito hanno sparato ad altezza d’uomo. Si contano 800 morti, forse più di mille. La situazione resta tesa tanto che la cerimonia di investitura del presidente Hassan si è svolta in privato e non come di consueto in uno stadio e per la prima volta nella sua storia il paese non celebrerà il giorno dell’indipendenza il prossimo 9 dicembre. 

Un ulteriore dubbio sull’effettiva condivisione delle priorità da parte dei governi africani, anzi sul modo stesso di intendere la cooperazione internazionale deriva dalle loro stesse richieste, espresse sia singolarmente sia come entità continentale. Con sempre maggiore insistenza rivendicano risarcimenti per trilioni di dollari per i danni che la tratta transatlantica degli schiavi e la colonizzazione europea hanno provocato e, cosi sostengono, tuttora causano all’Africa e agli africani ovunque residenti, finanziamenti astronomici per i danni derivanti dal riscaldamento globale che affermano di subire ingiustamente perché antropico, causato dal modello di produzione e di vita occidentali, e cancellazione dei debiti, possibilmente totale se no almeno di quelli contratti con la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale. 

«L’Africa orientale, di cui il Tanzania fa parte, è già teatro delle indicibili violenze e tragedie umane del Sudan. Uno Stato fallito è sufficiente». Così ha commentato la crisi tanzaniana la Mo Ibrahim Foudation, creata dal miliardario di origine sudanese Mo Ibrahim per promuovere buon governo e democrazia in Africa. Ma di Stati falliti in Africa ce ne altri, e sono troppi. L’ultimo Indice della governance, un rapporto prodotto ogni due anni dalla fondazione, registra per la prima volta in dieci anni una generale riduzione della governance. Il rapporto denuncia persecuzione dei partiti di opposizione, manipolazione delle commissioni elettorali, uso della forza per mantenere e consolidare il potere. «Senza pace, sicurezza e Stato di diritto – sostiene la fondazione – non si possono mettere a frutto le enormi risorse del continente e non si può chiedere che più capitali privati investano in Africa. Democrazia e buon governo sono le fondamenta sulle quali deve poggiare il progresso dell’Africa, senza di che lo sviluppo è destinato inevitabilmente a crollare sotto il peso della corruzione e della repressione».