Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LE PAROLE DEL PAPA

L'assoluzione non è un diritto assoluto

Le recenti parole di papa Francesco in un intervento a braccio, in cui dà dei “delinquenti” ai preti che non assolvono sempre, negano quanto la Chiesa ha sempre prescritto: ci sono dei casi in cui il sacerdote ha il dovere di negare o differire l’assoluzione: si nega quando non c’è reale pentimento, si differisce quando vi sono dubbi fondati al riguardo.
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Editoriali 15_11_2022 English Español

Ci risiamo con le parole a braccio di papa Francesco, che sono fonte costante di equivoci o di discredito, soprattutto per sacerdoti e vescovi. Ma stavolta, rivolgendosi ai partecipanti al corso per Rettori e Formatori dei Seminari dell’America Latina (vedi qui), ha decisamente superato se stesso, mostrando una preoccupante incontinenza verbale, non senza venature di doppi sensi sinceramente poco opportuni e ancor meno graditi. Per esempio, raccomandando la prossimità del sacerdote alle anime, il Papa ha affermato: «Questo [lo stile di Dio] deve essere contagioso, cioè il sacerdote, il seminarista, il prete deve essere ‘vicino’. Vicino a chi? Alle ragazze della parrocchia? E alcuni di loro lo sono, sono vicini, poi si sposano, va bene. Ma vicino a chi? Vicino come?». Non può non lasciare perplessi che un Papa si rivolga in questo modo a dei formatori dei Seminari, o a chicchessia. Sicuramente da evitare.

Il peggio però è poco dopo, allorché Francesco dà del “delinquente” al sacerdote che nega l’assoluzione, non solo omettendo le dovute precisazioni a riguardo, ma anche facendo capire che l’assoluzione non può essere mai negata o differita. Così riporta Vatican News: «Per il Papa è una sofferenza, infatti, incontrare “persone che vengono a piangere perché si sono confessate e gli è stato detto di tutto. Se vai a confessarti perché hai fatto una, due, diecimila cose sbagliate... ringrazi Dio e le perdoni!". E "se l’altra persona si vergogna" non bisogna bastonarla: "‘E non posso assolverti, non posso perché sei in peccato mortale, devo chiedere il permesso al vescovo...’. Questo accade, per favore! Il nostro popolo non può essere nelle mani di delinquenti! E un sacerdote che si comporta così è un delinquente, in ogni parola. Che piaccia o no”».

Il passaggio chiave sta in quel “non posso assolverti” che, invece, il confessore può e deve dire in circostanze ben precise. Vediamo di capire bene.

Il can. 978 §1 ricorda al sacerdote «che nell'ascoltare le confessioni svolge un compito ad un tempo di giudice e di medico» ed è stato «costituito da Dio ministro contemporaneamente della divina giustizia e misericordia, così da provvedere all'onore divino e alla salvezza delle anime».

Come si può ben comprendere dal testo, il ministro del Sacramento della Penitenza è ministro della giustizia, che esercita in onore di Dio, e ministro della misericordia, per la salvezza delle anime. Nessuna autorità nei cieli, sulla terra o sottoterra ha la potestà di alterare quanto Dio ha stabilito associando a Sè il suo ministro, per la semplice ragione che sempre Dio è giusto e misericordioso. E così, il ministro di Dio abilitato a ricevere le confessioni dei penitenti, è sempre ministro di Dio giusto e misericordioso. Per questo, tradizionalmente, si afferma che il confessore è giudice e medico: giudice perché soppesa la gravità dei peccati e li condanna, perché giudica l’integrità della confessione e le disposizioni del penitente; medico, perché deve fare una certa diagnosi della malattia dell’anima, indicare la medicina adeguata, imporre una soddisfazione che aiuta la guarigione, oltre che riparare la giustizia lesa.

È su questo fondamento del sacerdote che deve provvedere e all’onore di Dio e alla salvezza delle anime, che il can. 980 stabilisce che «se il confessore non ha dubbi sulle disposizioni del penitente e questi chieda l'assoluzione, essa non sia negata né differita». Dunque, il confessore deve giudicare delle disposizioni del penitente, ed in base a queste disposizione decidere se dare l’assoluzione, oppure se differirla o negarla. Il tenore del can. 980 indica chiaramente che impartire l’assoluzione è la norma, e solo se vi sono seri dubbi sul pentimento del penitente – il cui segno più chiaro è il proposito di non reiterare il peccato confessato – l’assoluzione non può essere data. Il medesimo canone prevede dunque che ciò possa accadere e che spetti proprio al sacerdote di esprimere un giudizio in merito, ovviamente, non secondo il proprio arbitrio, ma in base all’insegnamento del Magistero, perché il confessore agisce parimenti come ministro di Dio e ministro della Chiesa, nella persona di Cristo e in nome della Chiesa: «Il confessore, in quanto ministro della Chiesa, nell'amministrazione del sacramento aderisca fedelmente alla dottrina del Magistero e alle norme date dalla competente autorità» (can. 978 § 2). Il che significa che il sacerdote non può agire secondo criteri arbitrari.

Più precisamente, si distingue tra differimento dell’assoluzione e negazione. Il teologo belga Arthur Vermeersch ha donato una formulazione molto chiara: neganda est indisposito; dubie disposito differenda; a colui che non è affatto disposto dev’essere negata, mentre al penitente la cui disposizione interiore risulta dubbia dev’essere differita.

Facciamo un esempio chiaro. Se una persona va a confessarsi, esigendo l’assoluzione, mentre rivendica, nel contempo, la legittimità di continuare ad utilizzare dei contraccettivi, si tratta evidentemente di una persona indisposta e l’assoluzione dev’essergli esplicitamente negata. Se invece il penitente dà segnali di dispiacere, di comprensione della propria condotta sbagliata nel commettere adulterio, ma ancora non trova il coraggio di dare un taglio a queste relazioni, il confessore differisce l’assoluzione, in attesa che il penitente, attraverso una più intensa preghiera e ascesi, possa maturare con determinazione il proposito di non commettere più adulterio. Attenzione: il proposito, non che di fatto questo proposito si riesca sempre a mantenere. È chiaro che sia la negazione che il differimento dell’assoluzione devono essere comunicate con carità, cercando sempre di mantenere un canale aperto con il penitente, almeno per quanto sta al confessore.

Anche il can. 987, spostando il proprio focus dal ministro al penitente, ricorda che «il fedele per ricevere il salutare rimedio del sacramento della penitenza, deve essere disposto in modo tale che, ripudiando i peccati che ha commesso e avendo il proposito di emendarsi, si converta a Dio». In sostanza, si ricorda il diritto dei fedeli, debitamente disposti, di ricevere dai pastori l’aiuto dei sacramenti (cf. can. 213); diritto che l’Esortazione Apostolica Reconciliatio et Paenitentia definisce  «inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell'anima» (§ 33). Ma questo diritto è appunto vincolato alla disposizione del fedele.

Ora, nel sacramento della Penitenza, spetta al sacerdote giudicare queste debite disposizioni, soprattutto la contrizione che, spiega il Concilio di Trento, «è il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire. Questo atto di contrizione è sempre stato necessario per domandare remissione dei peccati» (Denz. 1676). Inoltre, «questa contrizione include non solo l’abbandono del peccato, il proposito e l’inizio di una nuova vita, ma anche l’odio della vecchia vita». Se non c’è contrizione, se non c’è proposito di emendare la propria vita, se non si ripudia la propria condotta peccaminosa, l’assoluzione dev’essere negata; e se anche fosse concessa, sarebbe invalida.

Allora, chi è il delinquente? Chi è colui che sbaglia, che manca al suo dovere, che fallisce l’obiettivo, secondo il senso etimologico del termine “delinquere”? O ancora, chi, secondo il senso più giuridico del termine, va contro la legge? È chi assolve a prescindere dalla disposizione del penitente o chi assolve, nega o differisce in base a queste disposizioni?

Il capovolgimento è ormai totale; è mai possibile che un Papa dia del delinquente a sacerdoti che fanno il loro dovere?