L'arcivescovo di Edimburgo: l'eutanasia mina il valore della vita
Mons. Leo Cushley interviene sui progetti di legge scozzesi in materia di suicidio assistito: l'esempio di altri Paesi dimostra che certe leggi plasmano una mentalità che considera il malato e l’anziano come un peso da togliere piuttosto che una persona da curare. Non è una scelta privata, poiché la sua diffusione spinge l’intera società a svalutare la dignità dei più fragili.
Una volta che permettiamo l’uccisione di una persona, si apre un varco per l’intera società. È in sintesi l’obiezione dell’arcivescovo di St. Andrews ed Edimburgo, mons. Leo Cushley, ai tentativi di legalizzare l’eutanasia in Scozia. Non è una questione privata, tra il malato terminale e il medico, dice in sintesi il presule, poiché le leggi plasmano la mentalità e sminuiscono a poco a poco il valore che la società attribuisce alla vita umana, fino al punto che prima o poi anziani e disabili si sentiranno costretti a “togliere il disturbo”.
La proposta di legge avanzata da Liam McArthur, dei Liberal-Democratici Scozzesi, mira a permettere il suicidio assistito a qualsiasi malato terminale che abbia compiuto 16 anni e risieda in Scozia da almeno 12 mesi. Il dottor Miro Griffiths, disabile e sostenitore della campagna “Better Way”, invece si oppone alla proposta di legge, anche vedendo ciò che accade in altre nazioni: «Laddove il suicidio assistito e l'eutanasia sono legali, abbiamo assistito a un innegabile diminuzione del valore attribuito all'essere umano. I disabili e le persone con problemi di salute mentale non ricevono il rispetto, la protezione e l'affermazione che meritano».
«Se questa legge verrà approvata – scrive mons. Cushley – eroderà ulteriormente il valore della vita umana nella nostra società, già gravemente minata dalla legalizzazione dell’aborto». Con conseguenze, pertanto, che vanno ben al di là del singolo individuo, del medico e dei familiari. La Lettera è stata diffusa in tutte le chiese dell’arcidiocesi per ricordare ai fedeli che opporsi è un dovere cristiano.
In primo luogo l’arcivescovo affronta l’obiezione comune per cui le scelte personali sarebbero insindacabili: in realtà, spiega, ogni nostra scelta influisce sugli altri, nel bene e nel male, e così «il nostro atteggiamento verso la vita, nella sua fase iniziale e terminale» finirà per influenzare «il tipo di società che stiamo costruendo». Al riguardo cita l’esempio del Canada, dove i paletti iniziali sono stati presto aggirati per sottoporre a eutanasia anche i disabili; o del Belgio, dove l’eutanasia è estesa anche a persone fisicamente sane ma sofferenti sul piano psicologico (come nel caso recente di Shanti De Corte, una ragazza di 23 anni gravemente traumatizzata dopo essere sopravvissuta a un attentato terroristico nel 2016, che ha chiesto e ottenuto di porre fine alla propria vita).
Legalizzare l’eutanasia manderebbe all’intera società un messaggio preoccupante, continua il presule: «le vite di quanti soffrono sul piano fisico e mentale, o dei disabili gravi, potrebbero essere considerate non più degne di essere vissute». Questo non solo da parte dei medici e dei familiari, non importa se mossi da cinismo o da pietismo, ma gli stessi malati e anziani rischiano di assimilare e cedere al pensiero «di essere un peso per gli altri» e pertanto di sentirsi in “dovere” di chiedere il suicidio assistito. Non far soffrire il malato, per il suo “bene”; e questi a sua volta non vuole pesare sui propri cari, pensando al loro “bene”: qualcosa non torna in questo scambio di “buone” intenzioni che sfociano nella morte.
Volendo decretare da sé la fine della vita si rischia di smarrirne il fine: «Morire è, forse ironia della sorte, l'evento più significativo della nostra vita – continua l'arcivescovo – perché è morendo che ci confrontiamo più chiaramente con il fatto che siamo creature fragili, dipendenti dagli altri e che in definitiva non siamo responsabili del nostro stesso destino. Per questo abbiamo uno speciale sacramento dell'unzione con il quale il Signore ci offre la propria forza e pace in questi momenti di crisi esistenziali, ed è anche per questo che dovremmo circondare i moribondi con le nostre preghiere e le migliori cure»
Ne faranno le spese anche gli hospice e lo stesso concetto di “cura”. Mons. Cushley fa riferimento ai «notevoli progressi nelle cure palliative di fine vita, ma c'è il rischio reale che l'introduzione del suicidio legalizzato diminuisca gradualmente i finanziamenti per gli hospice con il loro personale meraviglioso e dedicato». Di conseguenza, non bisogna dimenticare che «le richieste persistenti di suicidio assistito sono estremamente rare quando i bisogni fisici, psicologici, sociali e spirituali delle persone sono adeguatamente soddisfatti». Ed è un altro punto cardine della questione: prima di parlare di “diritti” non vale forse la pena di chiedersi perché una persona sceglie di morire, pensando che la morte sia l’unica via d’uscita da un malessere non solo fisico e su cui forse si può intervenire in altro modo?
Citando Papa Wojtyla, il presule scozzese ribadisce le ricadute sociali di una scelta che apparentemente viene rivendicata come un diritto individuale e indiscutibile: «È una questione della massima gravità che ci tocca sul piano individuale e collettivo», sottolinea ancora mons. Cushley, che cita l’enciclica Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II, a proposito di quei valori che «esprimono e tutelano la dignità della persona» e che «nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere» (EV, n. 71). L’arcivescovo non ignora gli argomenti «compassionevoli e umanistici» presentati a favore dell’eutanasia, ma se questa legge dovesse passare finirebbe per «inficiare profondamente il modo in cui trattiamo coloro che soffrono e ci prendiamo cura dei moribondi». In altre parole, finendo per considerarli un peso da togliere anziché una persona da curare finché si può e amare in ogni caso.