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MESTIERI & LETTERATURA / 3

L’agricoltore, custode della terra

Il lavoro nei campi cura il paesaggio e l’uomo, come testimonia la lingua latina. Vari autori sin dall'antichità hanno valorizzato la campagna, ma con Verga vi fa irruzione il dramma scaturito dalla cupidigia, che non risparmia neanche l’armonia contadina.

Cultura 03_10_2022

Il verbo latino colere ben descrive l’attività agricola che sorge quando le popolazioni si allontanano dalla vita nomade e iniziano a condurre una vita sedentaria, abitando un luogo e venerando le divinità del posto per propiziarsi il raccolto e tenere lontane le avversità. Il verbo ha in sé l’idea del «prendersi cura» e «custodire» la terra e il paesaggio, nel contempo sottolinea il radicamento al luogo, alle origini e alla terra, senza il quale non è possibile crescere e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro.

Nel De re rustica lo scrittore latino Varrone sottolinea che gli antichi Romani erano un popolo di contadini, che si dedicavano alla terra, ottenendo il risultato di disporre di terre fertili e belle e, al contempo, di conservare in salute e forza il corpo. Questo radicamento nella terra e nell’attività agricola attraversa lo stesso lessico della lingua latina che nasce in un primo momento per esprimere attività del mondo della campagna. Così, cernere significa all’inizio «passare al setaccio», solo più tardi «osservare, considerare»; delirare significa «uscire dal solco», quindi «farneticare»; sapere vuol dire «aver sapore» e, quindi, «sapere, essere saggio», perché solo se sai hai davvero sapore; putare significa in principio «potare» e, solo più tardi, «contare» e «pensare»; pangere vuol dire «piantare un palo» e assume poi il significato di «fissare, stabilire, pattuire»”; scribere (da scrobis ovvero «solco») in origine «incidere» diventa «scrivere»; versus in origine «solco tracciato dall’aratro» si trasforma in «riga di scrittura». E il discorso potrebbe proseguire per ore ad indicare il carattere profondamente contadino della civiltà latina e del suo linguaggio.

L’attività dell’agricoltore ha a che fare con la cura, la tutela, il lavoro e la stessa trasformazione dei paesaggi che sono frutto di questa attività instancabile e curata dell’uomo: basti pensare ad esempio a tanti paesaggi dell’Italia che sono stati plasmati dal lavoro dell’uomo. Nel De agri cultura Catone il Censore descrive l’agricoltore come il vir bonus colendi peritus ovvero un uomo radicato nei valori e nei principi, esperto dell’arte della coltivazione della terra. Il poeta latino Virgilio dedica un intero poema, le Georgiche, all’attività della campagna. L’opera è strutturata in quattro libri, dedicati all’agricoltura, all’allevamento, all’arboricoltura e all’apicoltura. Il poeta vuole richiamare i Romani all’importanza del lavoro agricolo, dopo la devastazioni delle guerre civili.           

Tutta la letteratura antica è attraversata dalla consapevolezza dell’importanza del lavoro in campagna, sorgente non solo del sostentamento per tutti, ma anche espressione del radicamento nel passato e nelle tradizioni. Non intendiamo (non sarebbe neppure possibile) delineare correnti ed autori che maggiormente valorizzano il mestiere del contadino e il culto della terra. L’uomo può vivere in armonia con la terra e la natura, come sottolinea magistralmente Pascoli nei versi di Arano: il lavoro umano è svolto all’interno dell’appartenenza ad una comunità in cui i compiti vengono divisi tra i diversi membri della comunità; c’è chi spinge le lente vacche, chi semina, chi rompe la zolla di terra con la zappa; al contempo, i passerotti e i pettirossi lieti aspettano la dipartita dei contadini per nutrirsi dei semi appena sparsi nei campi. Questa è la campagna abitata da un uomo che conosce la natura (con i suoi tempi) e la rispetta. La stessa campagna, quando è deprivata dell’azione benefica dell’agricoltore, appare spoglia e abbandonata, come quel campo «mezzo grigio e mezzo nero» in cui è rimasto un «aratro senza buoi […] tra il vapor leggiero», specchio del sentimento di solitudine che prova la lavandaia rimasta sola, perché l’amato è partito (Lavandare).

Il mondo della campagna, lavorato dal contadino, separato dall’esterno dalla siepe, da una recinzione, da una barriera che funga da protezione, è per Pascoli un nido sicuro, protetto. «La siepe recinge il podere che col suo grano, le sue viti, i suoi olivi garantisce alla famiglia contadina una vita serena, anche se povera e faticosa» (E. Gioanola). Pascoli legge nel mondo contadino solo una luce positiva, costruendo una sorta di idillio in cui anche la morte, che inesorabilmente è destino di tutti, giunge come «rugiada di sereno, non scroscio di tempesta». La morte tragica, cupa, quella che ha portato via il padre Ruggero, è figlia della cupidigia umana, del desiderio di arricchirsi e di ricoprire posizioni lavorative e sociali altrui. Il padre è stato ucciso da qualcuno che arrivava dall’esterno e che voleva sostituirlo come amministratore della tenuta dei principi di Torlonia. La campagna e il mondo degli agricoltori rappresenta per Pascoli solo valori positivi in una visione idilliaca.

Il genio di Leopardi guarda con interesse, velato talora da invidia, il mondo dei contadini, vedendo nell’agricoltura la «principal fatica e occupazione destinata agli uomini» (Zibaldone), anche se col tempo l’onore riservato agli agricoltori è purtroppo scemato, come annota il poeta sempre nel suo diario. Tutti ricordano la serena immagine dello zappatore che ritorna a casa, la sera del sabato che precede il dì festivo, fischiettando  e pensando al riposo che l’attende (Il sabato del villaggio). L’attività manuale ha per Leopardi l’importante pregio di distogliere l’uomo dalla noia, anche se il poeta è ben distante dall’illusoria convinzione che il contadino sia pienamente felice, a differenza degli altri lavoratori, perché la questione della felicità riguarda tutti gli uomini.

Nei romanzi di Pavese la terra con i suoi cicli e il suo tempo rappresenta la dimensione mitica, ancestrale, immutabile contrapposta ai cambiamenti della storia. Per questa ragione lavorare la terra e vivere a contatto con essa permette di scoprire l’aspetto perenne della vita. Il fuoco de La luna e i falò mostra due atteggiamenti opposti con cui l’uomo abita la terra: quello di chi rigenera e produce in un rapporto proficuo col luogo e quello di chi vive portando la violenza delle proprie azioni e della guerra. Il falò è anche segno di una doppia dimensione che attraversa le nostre vite: quella mitica e immutabile e quella della storia.

Nelle opere letterarie della contemporaneità la campagna non è più solo idillio, ma diviene spazio toccato anch’esso da drammi e tragedie storiche. Non solo. Anche nel lavoro dei campi si è insinuata la lupa dantesca, la cupidigia, che porta l’uomo a essere sempre insoddisfatto e a voler guadagnare sempre più. L’uomo è dominato dall’ambizione di possedere sempre di più, animato dalla roba che è il fine della religione del lavoro. Nella raccolta Novelle rusticane (1882) Verga demistifica l’idolo della roba e del possesso, una brama che attanaglia l’uomo radicandosi addirittura nelle sue vene e divenendo la sua sola ragione di vivere.

Un personaggio su tutti è, senz’altro, quel Mazzarò descritto nella novella La roba, che stigmatizza dell’idolo del possesso,. Cresciuto lontano dagli affetti familiari e dalle amicizie, dedito soltanto al lavoro, divenuto ragazzo inizia ad acquistare terreni con i soldi che riesce ad accantonare col sudore. Ben presto il suo diventa un patrimonio non monetario, ma fondiario tanto che i suoi possedimenti assorbono anche quelli del barone presso cui lavorava e che si era nel tempo indebitato. Quando Mazzarò si ammala e i medici gli comunicano che ha poco tempo da vivere, furioso ammazza «le sue anitre e i suoi tacchini», gridando: «Roba mia, vientene con me». Lui, che non è stato mai cosciente del destino che attende ogni uomo, si sente tradito dalla vita che gli ha fatto pensare per qualche tempo di essere un vincitore, rivelandogli in fondo che è solo un vinto. Per questo cerca la vendetta nei confronti della sua stessa roba pensando di poterla eliminare: ma la stessa gli sopravvivrà.

Lungi dall’essere un eroe, Mazzarò è una vittima. Il suo cuore è più che indurito, è come reificato, divenuto della stessa sostanza della roba. È proprio vero, come affermava il grande san Tommaso, che la vita dell’uomo consiste dell’affetto che maggiormente lo sostiene. Mazzarò non è triste, ma arrabbiato con gli altri e con la vita. Lui che non ha conosciuto altra legge che il possesso non ha nostalgia o rimpianto, non è cosciente di non aver vissuto e di non aver guardato in faccia la realtà.