L'Afghanistan narrato da don Giuseppe, per anni fu l'unico prete cattolico
"La mia grande tristezza è che lo spiraglio di pace che c'era stato in questi vent'anni - perché c'era stato! - è diventato di nuovo oscurità". Don Giuseppe Moretti racconta l'Afghanistan. Per anni, il cappellano dell'ambasciata italiana, è stato anche l'unico sacerdote cattolico nel Paese, che conosce dal 1977, vedendo tutte le sue drammatiche fasi storiche.
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Gli occhi del mondo sono puntati sull'Afghanistan. L'elicottero sul tetto dell'ambasciata Usa, la folla disperata all'aeroporto di Kabul, le due persone precipitate dalle ruote di un aereo in volo, il cargo militare strapieno di passeggeri: tutte immagini destinate a rimanere a lungo nella memoria collettiva.
Quasi 20 anni dopo l'ingresso delle truppe dell'Alleanza del Nord, i Talebani si riprendono la capitale e provano a mostrare un inedito volto buono. In una conferenza stampa il loro portavoce Zabihullah Mujahid ha cercato di rassicurare la comunità internazionale: niente oppio, nessuna discriminazione alle donne, nessuna vendetta contro chi ha lavorato con gli eserciti stranieri, niente basi ad Isis ed Al Qaeda. In Occidente c'è chi sembra credergli, ma intanto a Jalalabad si spara sui manifestanti che protestano per la rimozione della bandiera nazionale e a Kabul si prende a frustate la folla che ancora staziona fuori l'aeroporto. La popolazione civile non crede alla svolta moderata dei Talebani e di fronte al ritorno dell'Emirato islamico e della sharia, semplicemente, prova a scappare con la forza della disperazione.
Le scene di questi giorni rattristano ogni spettatore occidentale, ma in modo particolare chi in Afghanistan ci ha vissuto per tanti anni. E' il caso di padre Giuseppe Moretti, ex cappellano dell'ambasciata italiana e primo responsabile della missio sui iuris della Santa Sede a Kabul. Il barnabita, oggi 83enne, guarda con dolore a quanto sta avvenendo in quella terra dove fu a lungo l'unico sacerdote cattolico e ne parla in quest'intervista concessa alla Nuova Bussola Quotidiana.
Padre Moretti, il ritorno al potere dei Talebani era prevedibile ma si aspettava che avvenisse così repentinamente?
Non pensavo che avvenisse così presto e in questa maniera. In questi vent'anni c'era stato l'impegno della Nato a preparare l'esercito afgano, ma da parte di quest'ultimo sembra essere mancato un po' di orgoglio. Si pensava che la loro strategia di marcia verso Kabul fosse lunga e ostacolata ma, come detto, questo non è avvenuto. Nell'Accordo di Doha si era stabilito che il passaggio avvenisse gradualmente, consentendo una presa di possesso più soft da parte dei Talebani. Un po' come accaduto alla fine degli anni Ottanta: l'armata sovietica si ritirò dal Paese ma il presidente rimase il comunista Mohammad Najibullah fino al 1992, nonostante l'avanzata dei mujaheddin.
In conferenza stampa i Talebani hanno usato toni moderati ed hanno parlato di dialogo. C'è da fidarsi?
Se vediamo le immagini della conferenza stampa dal palazzo presidenziale, ci sembrano quasi una classe politica preparata. Ma poi basta scendere in strada e lì vediamo uomini con i fucili. Quali sono i veri Talebani? Hanno fatto promesse, anche positive ma gli crederò soltanto quando le vedrò realizzate. Perché le promesse, se non si mantengono, sono solo bugie.
Lei in una zona rurale dell'Afghanistan ha fondato la "Scuola della pace" che accoglieva sia studenti che studentesse, persino in classi miste. Crede che le ragazze potranno continuare a studiare?
Me lo chiedo anche io. Vorrei tanto che fosse così, ma se i Talebani sono rimasti gli stessi ed hanno cambiato solo i vestiti... Nella Scuola della Pace le ragazze erano molto attive: convincevamo le famiglie a continuare a farle studiare anche al liceo per sottrarle ai matrimoni forzati con uomini più anziani di loro. La nostra scuola era una proposta di futuro, adesso non so che fine farà. Due anni fa, l'ultima volta che ho messo piede a Kabul, ho cercato in tutti i modi di visitarla ma le forze d'intelligence mi hanno caldamente sconsigliato di farlo. La mia grande tristezza è che lo spiraglio di pace che c'era stato in questi vent'anni - perché c'era stato! - è diventato di nuovo oscurità.
Lei arrivò in Afghanistan nel 1977, prima dell'invasione sovietica. Come lo ricorda?
Era un Paese affascinante in cui si respirava un grande senso di libertà e di pace. Un Paese quasi occidentale. Le immagini di questi giorni, invece, sono peggiori di quelle che ho visto durante la guerra civile.
Come nasce la missione cattolica a Kabul?
Quello italiano fu il primo governo occidentale a riconoscere l'indipendenza afghana dopo la fine della terza guerra con gli inglesi. I rapporti diplomatici tra i nostri due Paesi, infatti, nel 2021 compiono cento anni. Il sovrano Amānullāh Khān fu talmente grato per questo riconoscimento che chiese al governo italiano cosa poteva concedere in cambio. L'Italia, allora, si fece portavoce del desiderio dei tecnici internazionali impegnati nella modernizzazione del Paese di avere un luogo di preghiera ed un assistente spirituale. Il sovrano non solo approvò la richiesta, ma ne rimase ammirato. Il primo religioso arrivò a Kabul nel 1933, dopo che Pio XI decise di affidare la missione ai barnabiti. L'Italia ha quindi il privilegio di ospitare l'unica chiesa cattolica in Afghanistan. All'inizio era solo una cappellina, adesso è invece ben visibile nell'edificio con tanto di croce esterna.
Nella sua esperienza afghana non sono mancati inconvenienti...
Quando l'ambasciata italiana chiuse nel 1993, decisi di rimanere a Kabul. Ma venni ferito nel 1994 da un razzo che colpì l'edificio nel bel mezzo di uno dei combattimenti più aspri tra i mujaheddin. Dopo essermi ristabilito dalle ferite, dovetti fare ritorno in Italia. Ma quando la Santa Sede mi chiese di ripartire nel 2002, fui ben felice di farlo. Considero quella in Afghanistan la mia esperienza pastorale più bella. Sebbene il proselitismo fosse vietato e nessun afgano si sia convertito al cattolicesimo durante la mia permanenza, in quegli anni ho sempre percepito la stima della popolazione locale. Anzi, sono stato rispettato più dagli afgani che da certi occidentali. Pensi che i miei collaboratori afgani, quando vedevano la chiesa vuota nel 2002 perché la comunità internazionale non era ancora numerosa, come lo era prima del 1993, e come lo sarebbe diventata poi, mi rincuoravano dicendo: "non si spaventi, sono miscredenti".
Cosa ne sarà ora della sua chiesa?
Devo dire che nel periodo del precedente regime dei Talebani, la chiesa non ha avuto alcun danno rilevante. Si sono limitati a depredarla, rubando un quadro che per noi aveva un significato importante, ma senza sfregi blasfemi. Comunque, pochi giorni fa ho sentito il mio successore, padre Giovanni Scalese: sa di essere il primo della lista ma ha intenzione di andare via soltanto se lasceranno il Paese anche le Missionarie della Carità. Queste suore si occupano di quelli che la società considera gli scarti dell'umanità. Quando la polizia li trova per strada, non li porta in ospedale ma direttamente a loro pur sapendo che sono cattoliche. Ecco, nonostante il divieto di proselitismo, in Afghanistan abbiamo annunciato Cristo attraverso l'impegno della credibilità, della nostra condotta. Abbiamo fatto il bene che potevamo fare e in questo modo abbiamo dimostrato la nostra fede cristiana. Adesso spero per l'Afghanistan che tutto possa camminare verso l'unica via dell'essere umano che è quella della pace, senza alcuna differenza di razza e di sesso.