La svolta woke di Jaguar, un effetto boomerang da manuale
Ascolta la versione audio dell'articolo
Accantonato il giaguaro, la storica casa automobilistica abbraccia inclusione, green e arcobaleno. E le vendite crollano. Un "caso di scuola" simile alla parabola di altri brand, che danzando al ritmo dello Zeitgeist hanno finito per inciampare.

Jaguar ha registrato il più clamoroso calo delle vendite in Europa. Ad aprile 2025, le immatricolazioni si sono fermate a 49 esemplari: un dato che, più che un numero, è un ideogramma della crisi. Solo un anno fa, nello stesso mese, le strade accoglievano 1.961 Jaguar nuove di zecca. Un crollo vertiginoso pari a poco più del 95%. Una volta era il felino della strada, oggi Jaguar è quasi una entità astratta.
I numeri di Acea, l’Associazione europea dei costruttori, suonano come un epitaffio: tra gennaio e aprile 2025 sono state vendute 2.520 vetture, contro le 10.778 dello stesso periodo del 2024. Meno quattro quinti, più una crisi d’identità che una flessione di mercato. Perché non è solo un tracollo commerciale: è una dichiarazione d’intenti.
La svolta woke di Jaguar si è trasformata in un boomerang da manuale. Il cambio d’abito del brand in un vestito iper‑inclusivo, concepito per sedurre nuove tribù di consumatori, ha finito per forse smarrire, certamente svilire, il felino nella giungla. Ottocento cervelli al lavoro, mesi di riunioni "creative", e un verdetto partorito a novembre 2024: via il giaguaro ruggente, icona di potenza e tradizione, per un’estetica più eterea e fluida. Risultato? Uno spot manifesto, multietnico e Lgbt‑friendly, dove le auto erano le grandi assenti. Un cortometraggio sulle diversità, senza cavalli né motore. Insomma, il solito spot nonsenso.
«Fate ancora automobili?», verrebbe da chiedere a Jaguar, riecheggiando la frecciatina che, dopo lo spot queer, lanciò Elon Musk. Ma il giudice più impietoso non posta commenti sui social, è il mercato, e ha già emesso la sentenza. Vendite a picco. Un cortocircuito perfetto: identità storica smarrita, target confuso, comunicazione in rotta di collisione con l’anima stessa del brand. Perché Jaguar non è mai stata un marchio qualunque. È l’epitome di un’eleganza di carattere, aristocratica. Cent’anni di coerenza demoliti dal club wokista.
Già nel 2022, Jaguar aveva tentato la fuga in avanti: bruciare i tempi di tredici anni rispetto all’Europa che, dal 2035, giura che riuscirà a mettere al bando i motori termici. Annunciò l’addio totale a benzina e diesel per abbracciare il completamente elettrico. «È una scelta in linea con il nostro spirito pionieristico e la strategia Reimagine», chiosò Marco Santucci, CEO di Jaguar Land Rover Italia, con l’orgoglio di chi vuole scrivere la storia prima degli altri. Detto fatto.
La produzione era iniziata nel 2018, ma la svolta ideologica non ha pagato e c’è ancora un modello a benzina e diesel che continua ad essere sul mercato per resistere alle vendite che arrancano.
Proprio in queste settimane è stato comunicato un rinvio dei nuovi modelli elettrici per concedere ulteriore tempo ai test e attendere un aumento della domanda di veicoli elettrici. Eppure i nuovi modelli dell’elettrico Jaguar dovevano essere annunciati proprio nell’estate del 2025 e poi in vendita a dicembre. Tutto questo ha generato, pertanto, anche un vuoto nel parco macchine che fa fatica a rimpiazzare il vecchio con il nuovo. Jaguar, dunque, è tutta orientata al futuro nella speranza che la domanda aumenti, ma finora la svolta radicale green non ha pagato: i margini sono stati rivisti al ribasso (5% contro il previsto 10%) e le vendite globali nel primo trimestre sono calate del 10,7 %.
Poi è arrivata la campagna pubblicitaria woke e tutto è andato definitivamente a rotoli. A spegnere il sogno woke, non è stata la politica, bensì il pubblico. Il consumatore vero, impermeabile agli indottrinamenti, ha sentenziato col portafogli, rispedendo al mittente il catechismo progressista in salsa arcobaleno. E infatti, almeno da un anno, dalle scrivanie dei CEO, l’agenda woke è stata sfrattata senza tanti complimenti: un fallimento plateale, trasformato in rosso di bilancio.
La pubblicità, da sempre, danza al ritmo dello Zeitgeist. Ci sono le volte in cui fa l’errore di sottovalutare l’ideologia di moda, come nel 2017, quando Pepsi pensò di dialogare con il movimento Black Lives Matter, che invece nello spot Live for Now vide il suo messaggio globale come banalizzato. Altre volte la pubblicità arriva in ritardo, come la Coca‑Cola del 1971 con il celebre I’d like to buy the world a Coke: l’utopia multiculturale in coro proprio quando l’onda hippie se l’era già inghiottita il mercato.
Ma se la pubblicità sbaglia epoca, le ossa si rompono. Ed è quando non intercetta il sentire comune, ma si lascia sedurre da narrazioni calate dall’alto. Con Obama prima e Kamala Harris poi, il marketing globale ha creduto di poter plasmare la realtà: un’illusione collettiva di CEO e creativi convinti che il brand potesse farsi vessillo politico. Quella stagione è finita. E quando un marchio non lo capisce, il tonfo è fragoroso. Da Jaguar sono solo arrivati decisamente tardi.
Sono mesi che i colossi globali fanno marcia indietro in punta di piedi: tutti hanno abbassato le bandiere arcobaleno e ritirato le sponsorizzazioni ai Pride di tutto il mondo. Perfino Target, simbolo del retail americano, ha nascosto la sua linea LGBTQ+ tra gli scaffali come se fosse merce clandestina ammettendo, «semplicemente abbiamo visto che la gente ha smesso di comprare». Lo stesso è successo a Nike che ha assaggiato il gelo del mercato: vendite crollate dopo le campagne con testimonial transgender. Disney ha visto i suoi film iper‑inclusivi naufragare al botteghino, mentre Levi Strauss ha tentato il salto dei jeans unisex, atterrando rovinosamente. Starbucks ha fatto marcia indietro dopo l’idea di finanziare gli interventi di cambio sesso ai dipendenti, e Gillette ha bruciato otto miliardi di dollari in Borsa con lo spot che metteva sotto processo il “maschio tossico”.
Anche Bank of America, Morgan Stanley, JPMorgan, Huntington e Wells Fargo con Amazon e Meta, insieme a tanti altri che già l’aveva fatto più di un anno fa, tutti hanno tagliato gli “obiettivi etici” imposti dall’agenda wokista.
Emblematica la parabola di Bud Light, la birra più venduta d’America, che nel 2023 si era lanciata nel pieno fervore identitario scegliendo come volto Dylan Mulvaney, creator trans simbolo della stagione woke. Il boomerang è stato spietato: boicottaggio virale e perdita di oltre un miliardo di dollari.
Al Super Bowl di quest’anno, Bud Light ha messo in scena una ritirata elegante quanto plateale: Shane Gillis, comico popolare e leggermente conservatore, mentre sorseggia birra tra bistecche alla griglia, tagliaerba e musica anni Ottanta al posto di rivendicazioni queer. Una carezza nostalgica alla middle class americana, ultimo rifugio di un mercato che ha riscoperto la parola oggi più rivoluzionaria di tutte: normalità.
Novo Nordisk — la multinazionale farmaceutica —, AstraZeneca e Apple, insieme alla catena di supermercati Costco, invece sono ancora sulle barricate a difesa delle politiche DEI — Diversity, Equity, Inclusion.
I fatturati e il vento contrario non possono lasciare indifferenti, ora lo sa anche Jaquar. In Italia, invece, siamo ancora in piena era woke e nessun pubblicitario sente il bisogno di andare controcorrente. Per ora.
La fine di Freeda Media, il capitalismo woke non regge
Il fallimento dell’azienda fondata nel 2016 rappresenta la fine di un’intera era dei media digitali: quella del “femminismo commerciale” e dei contenuti progressisti woke come strumenti di marketing di massa. Dietro il collasso di Freeda, lo smascheramento della sua facciata progressista.
Dalla Corte suprema Usa un duro colpo alla dittatura woke
Ohio. La dipendente pubblica Marlean Ames, eterosessuale e bianca, si vide negare la promozione a favore di una collega lesbica. La battaglia legale si è conclusa in Corte Suprema, che ha scardinato l'imposizione woke della Diversity, Equity, Inclusion (DEI).
La rivoluzione woke arretra anche nelle università americane
Assunzioni sospese, corsi cancellati, eventi annullati: nelle università americane spariscono tutti i programmi Dei, per paura di incorrere nella cancellazione dei fondi federali da parte dell'amministrazione Trump.