AUTORI DEL '900
La scrittura, il talento nascosto di Angelo Gatti
La riscoperta di un autore a lungo dimenticato diventato un caso con il romanzo Ilia ed Alberto.
Cultura
21_04_2012
Angelo Gatti (1875-1948) fu ufficiale di Stato maggiore sotto il comando del generale Cadorna, che affidò a lui, che era dotato di un notevole talento di scrittura, l’incarico di raccontare le vicende storiche e militari.
Fu così che Gatti ci lasciò il diario di guerra di Caporetto (maggio-dicembre 1917) che venne pubblicato per la prima volta solo nel 1964. «Il minuzioso resoconto di Angelo Gatti sugli eventi del 1917 si presentò pertanto come una preziosa offerta documentaria, atta ad agevolare, per la credibilità del suo autore e per la ricchezza delle notizie, le ricerche sulle cause e sugli sviluppi della sconfitta di Caporetto. […] Le pagine di Gatti rivelavano con particolari inediti episodi di fucilazioni sommarie […] confermando con elementi di prima mano il giudizio già espresso da una parte della storiografia circa lo sproporzionato sacrificio di sangue rispetto agli obiettivi perseguiti e circa il grave malcontento dei soldati» (Alberto Monticone). Una volta finita la guerra, Gatti si sposò con Emilia Castoldi, lasciò l’esercito e si dedicò alla letteratura, seguendo una collana di diari e di resoconti di guerra per la casa editrice Mondadori. Nel 1927 il felice matrimonio fu, però, segnato dalla morte della moglie. Lo scrittore convogliò i suoi interessi sulla narrativa e nacquero, tra le altre opere, Ilia e Alberto (1939), Il mercante di sole (1942), L’ombra della terra (1945).
Il suo romanzo più noto, Ilia ed Alberto, può essere considerato un caso letterario molto particolare e ora ne capiremo le ragioni. L’opera, che ripercorre le vicende autobiografiche dell’autore, appena uscita riscosse un incredibile successo tanto che nel 1947 erano già state effettuate 14 ristampe, segno che all’epoca il libro aveva intercettato gli interessi e le domande dei contemporanei. Alla morte di Gatti, però, il romanzo venne dimenticato e fu riscoperto solo nel 1994, quando l’inserimento all’interno della collana "I libri dello spirito cristiano" determinò una resurrezione della fama dell’autore e della sua maggiore opera. Si è già accennato al carattere autobiografico del romanzo.
Nella prima parte, intitolata «La casa in ordine», tutto sembra corrispondere alle attese dei due protagonisti in una vita che procede secondo i progetti. Ilia (abbreviazione di Emilia) e Alberto si sposano toccando «il limite estremo della felicità». Emblematica in una scena è la corsa dei due in automobile. Gatti scrive: ««Ehi» diceva l’automobile con la sua tromba, mentre andava rapida e silenziosa, come un gran personaggio, che passa una rivista, ma ha poco tempo da perdere; «ehi, lasciatemi passare, che ho fretta; ehi» diceva quell’automobile «porto due felici; ehi, ce ne sono poche automobili come me». Era un piacere osservare come la piccola macchina indovinava da lontano un pericolo o approfittava di un’occasione propizia per buttarsi innanzi; come sgusciava fra due carrozze, scansava un ragazzo». Mentre Ilia chiede al conducente Pietro di guidare con prudenza, Alberto con tono tronfio e sicuro di sé, come se le sciagure e gli imprevisti riguardassero solo gli altri, replica: «Dove ci sono io, non ci sono disgrazie». Giungono al cinema dove la luce del paesaggio e la velocità del viaggio si traducono in repentino buio e immobilità. È un’immagine presaga del buio improvviso in cui sprofonderà ben presto la vita dei due giovani sposi. Ecco, infatti, alle porte il fatto imprevisto e inaspettato, il dramma della malattia.
Una storia che ricorda la vicenda del Miguel Manara che sposa Girolama, la perde e deve riscoprirla nel tempo, comprendendo la sua fede, l’instancabile operosità e la certa letizia. Anche Alberto deve riscoprire e incontrare di nuovo Ilia. Deve conoscerla, una volta che è morta, proprio perché non è davvero morta, ma è ancora lì presente, anche se in una forma diversa e nuova. Prima, però, Alberto è sempre più arrabbiato con il mondo intero, come capita a tutti noi quando percepiamo quanto accade come disgrazia, cioè «non-grazia», non segno di un Mistero che mi ha toccato e mi ha provocato. Perdura «il rancore nascosto e inconfessato, ma profondo e violento, contro i fortunati: e per lui i fortunati, ormai» sono «tutti i vivi». «La sventura» non lo ha fatto migliore. Alberto deve intraprendere un viaggio di perlustrazione di sé, del male, del dolore, dell’umana miseria. È come il viaggio di Dante all’Inferno. Alberto chiede a Don Regazzoni come riesca ad amare l’uomo e a credere in un Dio che ha creato questo «animale così cattivo, che bisognerebbe piangere di gioia ogni volta che fa un’opera buona». Il prete risponde: «Anzi, per questo. Con Dio il mondo è un mistero, senza Dio un assurdo».
La vita è bella, perché c’è una fiammella che permette di fuoriuscire dalle tenebre e di camminare verso la meta: «Questo è il bello. Conoscere l’uomo, capire ogni giorno il male che fa, e operare come se fosse buono ed ogni giorno compisse il bene. Andare innanzi per la via oscura, perché lontano si scorge una fiammella, e vivere per quella fiammella, che però assicura l’esistenza del fuoco. Perdonare, come dice Gesù, perché gli uomini non sanno che cosa fanno». Si può sempre scommettere sull’uomo e sulla sua capacità di amare, anche quando sbaglia mille volte. Il perdono riafferma proprio questa ferita del cuore che spalanca e si àncora a quel bene più profondo a cui noi aneliamo. Non è nostro intento ripercorrere qui l’itinerario di Alberto che si dispiega nelle oltre cinquecento pagine del romanzo.
Preferiamo sottolineare la profonda riflessione esistenziale che attraversa le righe e il sospiro anelante ad una felicità piena che si traduce alla fine in presagio di gioia certa, assaporamento del «già e non ancora», del «centuplo quaggiù e dell’eternità». Così Gatti scrive nell’ultima parte «Il cuore in pace» nel capitolo intitolato «Sì»: «Gli uomini hanno inventato i giorni, i mesi e gli anni, per rammentare a se stessi di aver vissuto: in questo modo si sono fatti eterni». […] Lunedì, martedì, mercoledì, le settimane finiscono e poi ricominciano […]. Così, al ritornare dei giorni, dei mesi e degli anni, gettano per un momento l’àncora nel passato; rinnovano intanto le poche gioie e i molti dolori, ma della sofferenza non si curano». Il viaggio della vita che Alberto decide di intraprendere è come quello di cui discorre Platone nel Fedone (l’attraversata del mare su di una zattera), è simile a quello che Renzo intraprende per fuggire dalle prevaricazioni di Don Rodrigo, per scappare da Milano e poi ritornarvi per ritrovare l’amata Lucia, è come quello di Dante dalla selva oscura al Paradiso.
In fin dei conti, il viaggio della vita è alla scoperta di sé, come capisce Alberto alla fine: «Gli sembrava d’essere tornato alla scoperta di sé, che tutti gli uomini un giorno intraprendono. C’è chi lo intraprende con la fede e chi con la ragione, chi in fretta e chi pazientemente, chi dolorando a lungo e chi consolandosi presto, chi, infine, confessandolo e chi fingendo d’ignorarlo: ognuno tenta l’impresa con forze e modi differenti, e ognuno conosce soltanto il proprio affanno, ed è estraneo e quasi nemico all’altro. […] Forse, nessun viaggio reale sulla terra e nel cielo era stato mai tanto pieno di mistero e di maestà, quanto quello in cui nulla era successo secondo il ragionamento e la logica, e l’amore soltanto aveva indicato e aperta la via».
Come nella Vita nova Dante è chiamato a riconoscere Beatrice come segno di Cristo, così dopo tanti anni, tanto dolore e tanta fatica accade anche ad Alberto: «La fede nello spirito d’Ilia, la fede concepita […] come atto semplice» conduce «naturalmente Alberto verso il perfetto. Ilia operosa lo guidava in alto senza che egli quasi se n’accorgesse; e, mentre egli camminava sulle tracce di lei, gli parevano meravigliose le parole di San Giovanni: «Chi fa la verità viene alla luce»».