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Ora di dottrina / 126 – La trascrizione

La giustificazione – Il testo del video

La giustificazione è l’atto con cui Dio, per effetto del suo amore, rende giusto l’uomo. L’infusione della grazia è costitutiva dell’opera della giustificazione. Vediamo i suoi quattro passaggi principali, spiegati da san Tommaso.

Catechismo 28_07_2024

Ben ritrovati per quest’ultima Ora di dottrina prima della pausa estiva. Ricordo che le domeniche del mese di agosto non ci saranno le catechesi e neanche gli articoli di supplemento, ma proporremo delle letture per chi ne vorrà approfittare.

Dedichiamo questa catechesi alla giustificazione. Il termine giustificazione – vi rimando alle lezioni sulla grazia per comprendere bene quello di cui stiamo parlando – è un termine che abbiamo già sentito. E abbiamo semplificato dicendo che la giustificazione è l’atto con cui Dio rende giusti. Ora, come dobbiamo intendere questo “rendere giusti”? Non si tratta della giustizia intesa come virtù umana e cardinale. Perché? Che cosa ci dice la virtù della giustizia in quanto virtù? Ci dice il retto ordine di atti umani, azioni umane, che seguono il giusto ordine nella relazione con il prossimo, con la società, con Dio. Vi rimando alla lezione sulla virtù della giustizia.

Quando parliamo della giustificazione, l’atto con cui Dio rende l’uomo giusto, non intendiamo quindi la virtù della giustizia, che riguarda gli atti umani. Intendiamo invece un altro retto ordine, e da qui l’analogo del termine “giusti-ficare” (rendere giusti). Un ordine qui non in riferimento agli atti umani, ma – come dice san Tommaso – «alla disposizione interna dell’uomo». È una citazione della quæstio 113 della I-II della Somma Teologica, quæstio fatta di dieci articoli. Non li leggeremo tutti perché altrimenti faremmo una catechesi più lunga delle altre.

Dunque, è una giustizia che si riferisce non agli atti ma alla disposizione interna dell’uomo. Cioè l’uomo, interiormente – più costitutivamente, potremmo dire –, viene posto nel retto ordine. Retto ordine rispetto a cosa? Anzitutto nei confronti di Dio. E poi anche al suo interno: retto ordine tra le sue dimensioni, le sue facoltà.

Nell’articolo 1, san Tommaso spiega che quando parliamo di giustificazione la possiamo intendere in due modi. Un primo modo indica un passaggio, tecnicamente, dalla privazione alla forma. Cosa vuol dire? Cioè, un passaggio da qualche cosa che non c’era a qualche cosa che sopravviene. E di che cosa stiamo parlando? Spiega san Tommaso: «In questo senso la giustificazione può essere attribuita anche a colui che senza essere in peccato ricevesse tale giustizia da Dio» (I-II, q. 113, a. 1). È la giustificazione che hanno ricevuto i nostri progenitori. Prima del peccato, non avevano il peccato. Ma perché allora hanno avuto bisogno della giustificazione? Perché, di fronte a Dio, il retto ordine nei confronti di Dio richiede un’elevazione, cioè una forma sopraggiunta nell’anima – ne abbiamo parlato – che è la grazia santificante. Dunque, l’uomo viene interiormente modificato, riceve una nuova forma con la quale viene ordinato a Dio, viene posto in un rapporto non solo di creaturalità – per questo non serve la grazia –, ma di amicizia con Dio, di relazione amichevole con Dio.

C’è un secondo termine che è quello di cui di fatto si parla quando si utilizza il termine “giustificazione”, che è invece un altro passaggio, non dalla privazione alla forma, dallo stato di semplice creaturalità allo stato di amicizia dell’uomo con Dio, ma indica un passaggio tra un contrario e l’altro, ci dice san Tommaso, cioè da uno stato di ingiustizia in relazione a Dio a uno stato di giustizia: giustificazione, dunque, come passaggio da uno stato di ingiustizia a uno di giustizia. Qual è lo stato di ingiustizia? Qual è l’ingiustizia radicale non tanto dell’atto umano quanto invece della disposizione interna? È il peccato. Perché il peccato comporta una disposizione interna di rottura e avversione rispetto a Dio. Questa è l’ingiustizia radicale. Lo stato di giustizia indica invece il ristabilimento di un retto ordine nei confronti di Dio, il ristabilimento dell’amicizia con Dio, di questa partecipazione della vita divina. E questa è quella che viene chiamata la giustificazione dell’empio, cioè in sostanza la giustificazione di ogni uomo comparso sulla terra e che comparirà sulla terra: tutti, nessuno escluso, salvo appunto i nostri progenitori, la Santissima Vergine e Nostro Signore Gesù Cristo.

Nell’art. 2, troviamo quello che è il cuore di questa giustificazione. San Tommaso spiega che la giustificazione non è semplicemente un “condono”: “Condoniamo tutto. C’è stato un abuso edilizio, lasciamo l’abuso e condoniamo”. Non è questo il modo in cui si deve intendere la giustificazione, perché non è un semplice condono delle colpe – del tipo “non ci pensiamo più” –, ma è un effetto dell’amore di Dio nei confronti dell’uomo. Ma l’amore di Dio produce, crea in noi questo divenire degni della sua amicizia. Vedete che è qualcosa di molto più intenso. Non è semplicemente un “non ci pensiamo più”, ma è invece Dio che, amandoci, crea in noi ciò che ci rende degni della sua amicizia. Egli stesso produce in noi la grazia.

Abbiamo già parlato di questo aspetto, di come l’amore di Dio, il perdono di Dio non sia semplicemente un atto esterno, ma sia qualcosa che Dio pone in essere in noi. Quando abbiamo commentato la quæstio 110, che ritrovate nell’Ora di dottrina sull’essenza della grazia, abbiamo detto che Dio causa in noi ciò che ci rende a Lui graditi. Non è semplicemente che decide che siamo a Lui graditi; c’è invece proprio una trasformazione interna della persona, grazie all’opera di Dio, grazie all’infusione della grazia.

Questa infusione della grazia è costitutiva dell’opera della giustificazione. Potremmo dire che è la sua essenza. È impossibile che ci sia giustificazione senza infusione della grazia. E l’infusione della grazia è ciò che caratterizza la giustificazione. Ora, non dobbiamo però fare l’errore di pensare che l’infusione della grazia in sé stessa esaurisca la giustificazione.

Nell’art. 6 san Tommaso, riassumendo gli articoli precedenti, ci spiega che ci sono quattro elementi, quattro passaggi dell’opera di giustificazione. Attenzione al ragionamento che fa san Tommaso perché le sue sono veramente delle distinzioni molto preziose. Prima di tutto egli ci spiega che «la giustificazione è un moto con cui l’anima viene portata da Dio dallo stato di peccato a quello di giustizia» (I-II, q. 113, a. 6). Pesiamo bene queste parole. Abbiamo l’anima, la persona; abbiamo Dio che opera la giustificazione; e questa giustificazione che Dio opera, infondendo la grazia in questa persona, fa passare la persona stessa da un punto A – che è lo stato di ingiustizia, lo stato di peccato, lo stato di empietà – a un punto B – che è lo stato di giustizia, lo stato di grazia, lo stato di amicizia con Dio.

Spiega Tommaso: «In qualsiasi moto che uno riceve da un altro si richiedono tre cose: primo, la mozione di chi muove; secondo, il moto del soggetto che viene mosso; terzo, il compimento del moto, cioè il raggiungimento del fine prestabilito» (ibidem). San Tommaso ci sta dicendo che c’è Dio, c’è l’uomo e c’è uno “spostamento” da uno stato di ingiustizia a uno stato di giustizia. In questo movimento da - a, come in ogni moto di ciò che viene mosso da altro, che cosa abbiamo? Abbiamo: colui che muove, quindi la mozione di colui che muove; colui che è mosso, da un punto A, evidentemente, a un punto B; e poi il raggiungimento del fine di questo moto.

È qui che entra la distinzione che ci interessa. «Dalla parte della mozione divina, abbiamo l’infusione della grazia», primo elemento, senza il quale il resto non consegue: l’infusione della grazia, il moto del movente, la mozione di colui che muove. «Dalla parte del libero arbitrio, che è il soggetto mosso», cioè la persona mossa da Dio, c’è un duplice moto, «cioè l’abbandono del termine di partenza e l’avvicinamento al termine di arrivo». Il compimento, infine, cioè «il raggiungimento del termine del moto si ha con la remissione del peccato, poiché la giustificazione si compie in essa» (ibidem). Dunque, come vedete, abbiamo quattro movimenti. Il primo: l’infusione della grazia, la mozione divina. Il secondo riguarda il libero arbitrio, cioè la persona che viene mossa e ha due sotto-movimenti, cioè il tendere verso il suo fine e il distanziarsi dal punto in cui si viene mossi. E che cosa sono questi movimenti? Il tendere verso il fine che è Dio, come vedremo tra poco, è la fede. Il venir via dal “punto A”, dalla condizione di ingiustizia, è la detestazione del peccato. Quindi, abbiamo il compimento del moto, la remissione dei peccati. Questa è tutta l’opera della giustificazione.

Attenzione, Tommaso fa una precisazione fondamentale. Non sono fasi successive: non è che prima c’è una fase, poi c’è l’altra, un’altra ancora, ma è un ordine di natura, un ordine interno, per cui non si può avere la remissione dei peccati se non c’è movimento del soggetto, che tende a Dio e detesta il male. Ma questo movimento del soggetto non c’è se non c’è una mozione che lo muove, la mozione divina, l’infusione della grazia. Cronologicamente, per così dire, è un “pacchetto unico”, c’è una simultaneità. Però sono aspetti concettualmente distinti l’uno dall’altro: non c’è remissione dei peccati se non c’è il movimento del soggetto che si apre a Dio con la fede. E non c’è remissione dei peccati se la persona non detesta il peccato, se non va via dal peccato. Pensate alla conseguenza di questo sulla Confessione. Uno può dire “perché non viene data l’assoluzione dei peccati a prescindere?”. Come può la Chiesa rimettere i peccati senza il pentimento, se costitutivamente il movimento della giustificazione richiede che vengano detestati? In sostanza, sono necessari la contrizione e il proponimento di non offendere più Dio. Ma questi, a loro volta, non sono il frutto della mera azione umana: sono il frutto dell’infusione della grazia, della mozione della grazia.

San Tommaso spiega che l’infusione della grazia, che è il primo aspetto, e la remissione dei peccati, che è l’ultimo, possono essere considerati sotto due aspetti. «Primo, nella concretezza dell’atto. E da questo lato si identificano» (ibidem). C’è una simultaneità. «Infatti Dio con il medesimo atto dona la grazia e rimette il peccato. Secondo, possono essere considerati in rapporto al loro oggetto. E allora differiscono, come la colpa che viene eliminata differisce dalla grazia che viene infusa» (ibidem). Cioè, c’è una distinzione concettuale e di ordine. Ma appunto, Dio, con il medesimo atto, dona la grazia e dà la remissione del peccato. Questi dunque sono i passi costitutivi: l’infusione della grazia, la fede, la detestazione del peccato, la remissione dei peccati.

Se c’è un principio che san Tommaso non si stanca di ripetere in continuazione e che è veramente una delle colonne del pensiero teologico dell’Aquinate, è il fatto che Dio muove ogni cosa secondo la sua natura. Dunque, quando noi parliamo della mozione divina di infusione della grazia, questa infusione divina non solo non esclude ma conferma, pone in essere, rende possibile la modalità con cui l’uomo vive, quindi il libero arbitrio dell’uomo. Anch’io non mi stancherò mai di ripetere questa cosa: la grazia non solo non violenta la natura, non costringe, ma è precisamente ciò che rende possibile al libero arbitrio di agire veramente in piena libertà.

San Tommaso spiega appunto che «Dio muove tutti gli esseri secondo la natura di ciascuno. (…) E così Egli muove l’uomo alla giustizia secondo la condizione della natura umana. Ma l’uomo secondo la sua natura è dotato di libero arbitrio» (I-II, q. 113, a. 3). La natura dell’uomo richiede che egli si muova alla giustizia secondo il libero arbitrio, liberamente. La mozione divina si innesta in questa natura, muove l’uomo secondo la sua natura, non lo muove come se fosse una biro e non lo muove nemmeno come se fosse un uccellino. Lo muove secondo la sua natura. Perciò, conclude san Tommaso: «In chi possiede l’uso del libero arbitrio non c’è una mozione di Dio verso la giustizia senza l’esercizio di esso; e Dio non infonde il dono della grazia giustificante, senza muovere al tempo stesso il libero arbitrio ad accettarlo, in coloro che sono capaci di esercitare tale facoltà» (ibidem). Cioè, l’infusione della grazia avviene perché l’uomo, con i suoi atti liberi, a sua volta si muova verso Dio e si distacchi dallo stato di ingiustizia, dallo stato di peccato in cui si trovava. È qui che abbiamo la cooperazione dell’uomo alla grazia, che abbiamo già ripetuto.

San Tommaso ci sta dicendo che l’uomo deve muoversi liberamente verso Dio. Cos’è questo moto verso Dio? È l’atto di fede. Nell’art. 4, Tommaso spiega che «la prima conversione verso Dio avviene mediante la fede, come insegna san Paolo: “Chi s’accosta a Dio deve credere che Egli esiste”» (I-II, q. 113, a. 4). È chiaro che quando parliamo della fede in senso cattolico, parliamo sempre della fede perfetta. In che senso? La fede informata dalla carità. Dunque, ci sono sempre la fede, la speranza e la carità: le virtù teologali che muovono verso Dio e comportano la grazia ricevuta e una corrispondenza nell’uomo. Vedete sempre questi due aspetti.

Uno potrebbe chiedere: “Per la giustificazione cosa bisogna fare? Bisogna prima conoscere tutto il catechismo?”. No, nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso spiega che «nella giustificazione dell’empio l’atto di fede è richiesto nel senso che l’uomo creda che Dio giustifica gli uomini mediante il mistero di Cristo» (ibidem). In sostanza, questo atto di fede è credere che Dio può giustificare gli uomini e lo può fare per la mediazione del Redentore; l’atto di fede, dunque, non è la conoscenza di tutta la dottrina della fede (che poi chiaramente va conosciuta), perché c’è tutto un percorso – delle virtù, della conoscenza (in questa vita non abbiamo nient’altro da fare di serio che questo, di veramente serio).

Ma c’è anche l’altro movimento. Il primo è muoversi verso Dio. Ma muovendomi verso Dio io guardo indietro, dove ho lasciato il peccato: l’altro aspetto è dunque la detestazione del peccato, l’allontanarsi dall’ingiustizia. Diventa fondamentale anche questo aspetto: una conversio ad Deum, ma anche una aversio a peccato, un’avversione al peccato, un venir via dal peccato, una detestazione del peccato, una rottura con il peccato.

È interessante la risposta che san Tommaso dà alla prima obiezione nell’art. 5. L’obiezione diceva che «per cancellare il peccato basta la carità, poiché sta scritto “L’amore ricopre ogni colpa”. Ma l’oggetto della carità non è il peccato. Quindi, per la giustificazione dell’empio non si richiede un moto di libero arbitrio contro il peccato» (I-II, q. 113, a. 5). In sostanza, ecco cosa ci sentiamo dire oggi: “Basta la carità, basta l’amore”. San Tommaso risponde in modo molto intelligente, realistico: «Spetta a un’unica virtù perseguire un dato oggetto e fuggire il suo contrario». Perché? Perché, come abbiamo detto, quando io vado verso, non faccio un altro atto rispetto all’allontanarmi da… se io mi muovo in questa direzione, mi sto già anche allontanando da. E spiega: «Siccome quindi spetta alla carità amare Dio, appartiene ad essa anche detestare i peccati che separano l’anima da Lui» (ibidem).

Dunque, la medesima carità, che anima la fede, ci porta verso Dio e ci allontana dal peccato. È semplicemente impensabile, inconcepibile, irrealistico pensare di avvicinarsi a Dio, ma nello stesso tempo mantenere un legame con il peccato. Non ha senso. Perché questo avvicinarsi a Dio non è un moto semplicemente emotivo. Dunque, questi sono due aspetti che viaggiano insieme, sono come i due lati della medaglia: non posso prendere solo uno e lasciare l’altro. Questo movimento verso Dio comporta una rottura con il peccato. Se invece c’è ancora, come si dice tradizionalmente, un affetto al peccato, un attaccamento al peccato, stiamo facendo il movimento contrario, ci stiamo allontanando da Dio. E quindi non c’è la carità. È importantissimo comprendere queste dinamiche. Io posso “accidentalmente” cadere nel peccato, rialzarmi e dire “ho sbagliato sentiero, ma è lì che volevo andare”: non stiamo parlando di questo. Stiamo parlando invece dell’affetto al peccato. “So che il peccato è tanto carino, me lo tengo stretto…”: questo aderire al peccato comporta l’allontanarmi da Dio e quindi comporta la morte della carità, non c’è la carità. Perché la carità mi prende, mi sposta verso Dio e mi ritrae dal peccato.

Gli ultimi due articoli – il 9 e il 10 – sono un po’ a parte, ma sono interessanti. Nell’art. 9 san Tommaso si chiede se la giustificazione dell’empio sia l’opera più grande che Dio compia. Leggiamo una parte della sua risposta: «Un’opera può dirsi grande in due modi. Primo, per il modo in cui viene compiuta; e in questo senso l’opera più grande è la creazione, in cui c’è la produzione dell’essere dal nulla» (I-II, q. 113, a. 9). Quindi, quanto al modo, creare è più grande che giustificare il peccatore. Perché? Perché la creazione è un passaggio dal nulla all’essere, mentre la giustificazione è un passaggio da un opposto al suo contrario. L’infusione della grazia è la forma nuova che sopraggiunge nell’anima, ma non è un passaggio dal nulla all’essere. In quanto al modo, dunque, è più grande la creazione.

Però san Tommaso precisa: «Un’opera può dirsi grande per la grandezza di ciò che viene prodotto. E in questo senso la giustificazione dell’empio, che termina nel bene eterno della partecipazione di Dio, è più grande della creazione del cielo e della terra, che termina a un bene mutevole» (ibidem). Cioè, se è vero che quanto al modo la creazione è più grande della giustificazione, è altrettanto vero che quanto a ciò che viene realizzato, la giustificazione è più grande della creazione. Perché? Che cos’è la giustificazione? È la partecipazione alla vita di Dio, l’amicizia con Dio. Termina, ci dice san Tommaso, in Dio, termina nel bene eterno della partecipazione di Dio. Questo non è il fine di tutta la creazione, perché appunto la partecipazione alla vita divina viene data a quelle creature che sono capaci di Dio, anche di questo abbiamo già parlato la scorsa volta. Mentre «il cielo e la terra passeranno» (Mt 24,35), la partecipazione alla vita divina non passerà. In questo senso è più grande la giustificazione. Parliamo di due grandezze, non parliamo di un male e di un bene o di qualche cosa di secondario, parliamo di due grandezze che però vanno viste sotto angolature diverse.

Nell’ultimo articolo, san Tommaso si chiede se la giustificazione sia un’opera miracolosa. È un miracolo? E fa una triplice distinzione. Quando parliamo di miracoli, dice, dobbiamo distinguere. Se parliamo della potenza della causa agente, ossia la potenza di colui che fa il miracolo, allora è miracolo la giustificazione dell’empio, ma è anche miracolo la creazione del mondo ed è miracolo tutto quello che solo Dio può compiere, ossia tutto ciò che è compiuto solo dalla potenza della Causa agente.

Però dice san Tommaso: «In alcune opere miracolose si riscontra che la forma prodotta è al di sopra della potenza naturale di quella data materia: per esempio, nella resurrezione di un morto, la vita è data al di sopra della potenza di quel dato corpo. E sotto questo aspetto la giustificazione dell’empio non è miracolosa, poiché l’anima è per natura capace della grazia. Infatti, secondo sant’Agostino, “per il fatto stesso che è stata creata a immagine di Dio, essa è capace di Dio mediante la grazia”» (I-II, q. 113, a.10). Punto delicatissimo, qui si potrebbero scrivere dei volumi e ci sono stati dei dibattiti infiniti. San Tommaso non sta dicendo che l’uomo è capace di elevarsi a Dio con le sue sole forze. Però sta dicendo che è capace della grazia, cioè è capace di Dio. La sua natura ha un’apertura capace di Dio.

Il bene a cui l’uomo è chiamato – è fondamentale questo concetto – non è mai un bene particolare: sebbene esistano tanti beni particolari, nessuno è in grado di esaurire questa apertura dell’uomo. Solo Dio è in grado di colmare quest’apertura. E dunque l’anima, essendo capace della grazia, essendo capace di Dio mediante la grazia, quando viene giustificata, non viene operato un miracolo nel senso che si fa qualcosa di superiore alla potenza naturale, ma è qualcosa di conforme a quella potenza, conforme a quella natura, sebbene quella natura non sia in grado di farlo da sola. Qui bisogna stare molto attenti, perché il rischio è, da un lato, di pensare alla natura umana come capace essa stessa di redimersi e di elevarsi a Dio senza il soccorso di Dio, senza il soccorso della grazia; ma dall’altra parte, ci può essere invece una concezione della grazia come se fosse qualche cosa di estraneo alla natura dell’uomo. Non è così: la natura dell’uomo si apre ad attendere il soccorso della grazia. Essa non la può raggiungere, tuttavia è predisposta per riceverla.

Terza e ultima distinzione: «Nelle opere miracolose si riscontra qualche cosa che non rispetta l’ordine consueto nel causare: come quando un infermo riacquista subito la salute, fuori del corso normale della guarigione dovuta alla natura o alla medicina» (ibidem). Il classico storpio che improvvisamente cammina. C’è un ordine che non è consueto: normalmente lo storpio non guarisce immediatamente; di solito non guarisce proprio, ma se guarisse secondo un ordine di natura, per particolari conoscenze mediche, lo farebbe secondo un certo ordine, assumendo certe cose, secondo un processo di guarigione. Quando invece l’ordine non rispetta la consuetudine, allora «sotto quest’aspetto la giustificazione dell’empio a volte, ma non sempre, è miracolosa». Cosa vuol dire? Vuol dire che a volte abbiamo la classica “caduta da cavallo” di San Paolo; altre volte invece questa giustificazione segue un ordine più “normale”, più consueto, meno appariscente.

A settembre riprenderemo con un altro tema delicatissimo, che è quello del merito. E poi cercheremo di fare il punto su quelli che sono stati i grandi dibattiti, soprattutto con il mondo protestante e che hanno portato alle definizioni fondamentali del Concilio tridentino e ad altre questioni successive, proprio sulla questione della giustificazione e del merito.



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