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Ora di dottrina / 116 – La trascrizione

Le virtù cardinali: la giustizia – Il testo del video

L’uomo giusto è colui che ha «la volontà costante e perenne di dare a ciascuno il suo» (S. Tommaso). Questo «suo» si fonda sulla creazione, che è un atto di puro amore di Dio. Le ideologie, togliendo di mezzo il Creatore, sono la premessa di ogni ingiustizia.

Catechismo 19_05_2024

Proseguiamo la nostra riflessione sulle virtù cardinali. Oggi, dopo aver visto la temperanza e la fortezza, ci occupiamo della giustizia. È la terza virtù cardinale che affrontiamo noi, ma la seconda in base all’ordine classico delle quattro virtù cardinali, cioè: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza.

Andiamo a vedere come san Tommaso definisce la giustizia o, meglio, l’uomo giusto. Faccio sempre una precisazione: non stiamo facendo un trattato delle virtù cardinali, le stiamo semplicemente accennando all’interno del discorso che abbiamo iniziato ormai mesi fa, sul ritorno dell’uomo a Dio. Quindi, la creazione come “uscita”, come exitus, e il ritorno (reditus) dell’uomo a Dio, che avviene mediante i propri atti virtuosi: atti virtuosi che però non sono sufficienti, perché è necessario l’intervento della grazia. Prossimamente parleremo anche di questo.

San Tommaso, nella Summa Theologiæ, definisce l’uomo giusto come colui che ha «la volontà costante e perenne di dare a ciascuno il suo» (II-II, q. 58, a. 1). Questa definizione, piuttosto classica, è ben fatta perché in effetti comprende tutti i termini che aiutano a capire che cos’è la giustizia. Anzitutto, come vediamo, si parla di una volontà. La virtù di giustizia, essendo una virtù, richiede un atto libero, un atto volontario e cosciente, non è qualcosa che proviene dall’istinto o dalla costrizione, il che non significa che non siano due elementi che possano influire positivamente sulla virtù.

Questa volontà è caratterizzata da due aggettivi: è costante ed è perenne. Sono due aggettivi che richiamano il fatto che si tratti di una disposizione stabile, di un habitus, appunto: è questo che fa la virtù. La virtù è caratterizzata da una costanza e da una perennità. Dunque, l’uomo virtuoso non è l’uomo che in modo estemporaneo agisce in modo giusto o l’uomo che agisce per un po’ in modo giusto e poi agisce in modo ingiusto. Si tratta di una volontà che si esprime, che compie la giustizia nei vari ambiti della propria vita in modo costante, in modo perpetuo, perenne. È una disposizione.

E poi abbiamo quello che è propriamente l’oggetto formale che caratterizza l’oggetto proprio della giustizia, cioè in che cosa consiste questo atto libero, costante, perenne: nel dare a ciascuno il suo. Questa è la definizione classica: unicuique suum (a ciascuno il suo) e altre varianti simili; l’atto giusto è contraddistinto da questo. A un individuo, a un ente o a una società viene dato ciò che è loro, ciò che gli spetta, potremmo dire. Si comprende, dunque, che dal punto di vista dell’aspetto fondativo della giustizia – che è quello di cui ci occuperemo oggi, non parleremo di tutti i tipi di giustizia – a definire la giustizia è proprio quel suum, quel “suo” che spetta a ciascuno. Al punto che, se non do a ciascuno quel che è suo o non riconosco ciò che è suo, commetto un’ingiustizia.

Ora, la domanda è chi o che cosa stabilisce questo suum? Se la giustizia è dare a ciascuno il suo, questo suo come lo facciamo a conoscere, chi lo stabilisce? Quel suum ha bisogno di un fondamento: se vogliamo, questo suum è sinonimo dello ius, cioè del diritto, termine assolutamente abusato, ma non per questo ha meno fondamento nella realtà. Che cosa significa rivendicare un diritto? Significa che non mi è stato dato o mi deve essere dato ciò che mi spetta. Di nuovo, la domanda: chi determina cosa spetta a chi? Uno potrebbe liquidare molto grossolanamente e facilmente la questione, dicendo che questo lo determina la legge, lo determina un accordo, per cui se ho firmato un contratto – per cui ti dovevo dare una cosa a un dato prezzo e tu non mi dai quel prezzo stabilito, oppure a quel prezzo non mi viene data quella determinata cosa così come doveva essere – ecco che allora manca quel suum che deve essere dato. Quindi, potremmo pensare che sia sufficiente una legge, un contratto, un accordo. E tuttavia ci troviamo di fronte a due obiezioni che potremmo rivolgere a chi pensa di risolvere, di liquidare la questione in questo modo.

La prima obiezione è che noi facciamo l'esperienza che non sempre le leggi sono giuste, il che significa che, nella nostra esperienza e anche nel senso comune, noi constatiamo che ci sono delle leggi che in realtà non danno a ciascuno il suo. E scalpitiamo di fronte a questo. Di fronte, per esempio, a un’eccessiva pressione fiscale, uno dice giustamente “non sto più dando allo Stato ciò che è suo, gli sto dando anche ciò che è mio e che dovrebbe rimanere mio”. Oppure, pensiamo ai totalitarismi del Novecento: anche le loro erano leggi, eppure siamo tutti più o meno concordi nel ritenere che non dovevano essere obbedite perché profondamente ingiuste. Dunque, il fondamento del diritto non può essere la legge, serve altro. Serve un fondamento della stessa legge.

La seconda obiezione che potremmo muovere è questa: se noi supponiamo per buono che il fondamento della giustizia sia la legge, secondo quale principio io devo osservare una legge, devo obbedire a una legge? Qual è il fondamento che mi dice che è giusto obbedire a una legge? Non può essere la legge stessa perché si creerebbe un circolo vizioso.

Allora, la soluzione a questo problema ci viene data da una frase che è presente in un’altra opera importante di Tommaso che è la Summa contra Gentiles, al secondo libro, capitolo 28, n. 3. San Tommaso dice che «la cosa creata – res creata – inizia ad avere qualcosa che è suo – alicui suum, vedete di nuovo questa espressione – per la prima volta mediante la creazione». E prosegue: «E dunque la creazione non procede da un debito di giustizia». Frase che può sembrare un po’ difficile da capire, ma in realtà adesso la spieghiamo e capirete che è molto semplice. San Tommaso ci sta dicendo che una cosa riceve questo suum, che può rivendicare, per creazione. È la creazione che, creando qualcosa, stabilendo qualcosa, determinando un’identità di qualcosa, fa sì che a quella res creata spetti qualcosa e non altro. E dunque, sulla base di questo, san Tommaso ci dice che la creazione stessa «non procede da un debito di giustizia».

Cioè, la creazione fonda la giustizia, ma non è fondata da un atto di giustizia. Perché non è fondata da un atto di giustizia? Perché la creazione non è un atto giusto, il che non vuol dire che sia ingiusto: è un atto che precede e fonda la giustizia. E nella teologia cattolica, nella Rivelazione cristiana, noi sappiamo che la creazione non è un atto di giustizia di Dio, come se Dio debba qualcosa a qualcuno: non deve niente a nessuno, perché la realtà altra da Dio inizia a sussistere precisamente mediante la creazione, non prima.

Dunque, la creazione è un atto di puro amore di Dio: puro amore nel senso di amore, sapienza e onnipotenza, ma non è un atto che doveva essere compiuto. Questo è molto interessante, qui siamo proprio al fondamento, al cuore della giustizia: la giustizia – che fonda il vivere civile, la vita tra gli uomini, le relazioni tra gli uomini, le relazioni tra l’uomo e la società – cerca un fondamento. E questo fondamento non è, non può essere un atto di giustizia stesso, ma è un atto che supera la giustizia, cioè è un atto della bontà divina. E questo atto della bontà divina è il fondamento di ogni giustizia. Perché è il fondamento di ogni giustizia? Perché determina la realtà, l’identità di ciascuna cosa creata. Ed è proprio guardando l’identità di ciascuna cosa creata che noi possiamo comprendere ciò che è suo, ciò che spetta a questa realtà creata.

Andiamo più nel concreto: tra le realtà create, chiaramente c’è l’uomo. Chi determina ciò che è degno o indegno dell’uomo? Non può essere una legge, abbiamo visto perché. A determinarlo è chi è l’uomo: ma chi ha fatto sì che l’uomo fosse così e non in un altro modo? Dio stesso. In pratica, noi affermiamo che la giustizia – che richiede un concetto di ius, di diritto, perché se la giustizia è dare a ciascuno il suo, la giustizia mi dice che devo determinare questo “suo”, altrimenti come faccio a compiere un atto giusto? –, questo “suo” che fonda la giustizia si fonda sulla creazione. Questo è un punto fondamentale da cui adesso traiamo qualche conseguenza.

Stiamo affermando una cosa importante e cioè che alla base della giustizia c’è il riconoscimento di qualcosa che è dato: a fondamento della giustizia c’è qualcosa che noi riconosciamo, non c’è qualcosa che noi produciamo, non c’è qualcosa che noi ci inventiamo, stabiliamo in modo arbitrario. C’è un primo movimento, potremmo dire, passivo, di riconoscimento di una realtà che è data. E perché è data? È data precisamente perché è creata. Dunque, vedete come il concetto di giustizia è fortemente legato al diritto che è fortemente legato al concetto di creazione, che è a sua volta legato al Creatore. La ricerca del fondamento della giustizia è profondamente, potremmo dire, teista, afferma profondamente non solo l’esistenza di un dio, ma di un Dio Creatore, da cui la creazione dipende, da cui la creazione ha ricevuto il suo codice, il suo linguaggio, la sua consistenza: ogni ente della creazione ha ricevuto la sua consistenza dal Creatore.

È in questa prospettiva e in questa profondità che noi comprendiamo un’altra affermazione di san Tommaso, alla quæstio 57. Si tratta della risposta alla seconda obiezione, dell'art. 2: «Se una cosa è di per sé in contrasto con il diritto naturale, allora non può diventare giusta per volontà umana» (II-II, q. 57, a. 2). Cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Sul diritto naturale potremmo aprire un capitolo enorme, perciò semplifichiamo. Ci sta dicendo che se un atto è in contrasto con la realtà di qualcosa, con ciò che quella cosa è, la dignità propria di quell’ente creato, allora non può diventare giusto per volontà dell’uomo. Perché non può? Perché l’uomo non è creatore della verità, ma è esso stesso creatura e destinatario di una parte della creazione. Dunque, l’uomo non ha autorità per mutare l’ordine delle cose, per mutare la realtà delle cose. Questo è il senso di questa frase importantissima, al di fuori della quale, cioè al di fuori di questo principio che abbiamo visto da diversi punti di vista, che cosa rimarrebbe? Rimarrebbe il potere, cioè qualcuno che decide che cosa è il suum da dare a quella determinata cosa, all’essere umano concretamente, non all’essere umano in astratto. E dunque saremmo nelle mani dell’arbitrio del potere, del più forte, cioè di chi sa imporre la propria decisione mediante la persuasione, la forza o il concerto tra l’una e l’altra.

Questa è un po’ l’articolazione che sempre la Chiesa – penso in particolare ai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – ha cercato di mettere avanti, cioè che l’eliminazione di Dio non dalla devozione personale, ma dalla vita sociale, dalla vita politica, dal diritto stesso, sarebbe stato il peggior errore che l’uomo potesse compiere, perché, tolto di mezzo Dio – tolto di mezzo il fondamento, quindi tolta di mezzo l’idea di una creazione –, l’uomo resta indifeso e in balìa di determinazioni e sovra-determinazioni, mutamenti che cancellano ciò che era stato fatto prima, ciò che è suo.

Allora, questo ha due conseguenze importanti. La prima è che ogni ingiustizia ha sempre il volto di un’ideologia. Cioè il sistema ideologico è l’habitat, la madre dell’ingiustizia, del sistema ingiusto. Perché? Perché in fondo l’ingiustizia fa sempre a pugni con la realtà, l’ingiustizia è un distacco dal reale. Perché, se giusto è riconoscere ciò che è il suum di ogni cosa, riconoscerlo come tale e agire di conseguenza, va da sé che l’ingiustizia è il non riconoscimento; l’ingiustizia ha sempre un conflitto col reale, ha sempre un conflitto con la creazione, ha sempre un conflitto con la creatura.

La seconda conseguenza è che la perdita della creazione, la perdita del Creatore – la perdita quoad nos, dal nostro versante – è la premessa di ogni ingiustizia. Questa rimozione di un fondamento altro che precede qualsiasi tipo di manipolazione dell’uomo è la premessa di ogni forma di ingiustizia. È interessante anche notare che la dissoluzione del diritto, cioè di quel suum che spetta a ciascuna creatura per quello che è, può essere compiuta non solo attraverso l’oppressione di quel diritto, il non riconoscimento di quel diritto, il calpestare un certo diritto, ma viene anche compiuta con la moltiplicazione e l’invenzione dei diritti. Detto in altro modo, prendiamo l’uomo. Cosa caratterizza la sua reale dignità ontologica e che quindi mi dice cos’è quel suum che gli va riconosciuto? Come individuo e come parte di un corpo sociale, e ciò che questo individuo deve a sua volta al corpo sociale, sono le diverse parti della giustizia: la giustizia commutativa, da individuo a individuo; la giustizia legale, dall’individuo alla società; la giustizia distributiva, dalla società all’individuo. Ciò che mi dice questo suum, io posso in qualche modo colpirlo in due modi: 1) mediante una negazione, teorica o semplicemente fattiva, che è molto comune del diritto. Si proclama la dignità dell’uomo, ma poi si riduce l’uomo a un pezzo di un ingranaggio; 2) oppure inventandosi e pensando come suum ciò che in realtà non è un suum: questa è la moltiplicazione, l’invenzione di pseudo-diritti, di cui siamo strapieni, stracolmi. Tutti e due i meccanismi sono in atto e tutti e due vanno a ledere quel reale suum che spetta all’uomo e a ogni realtà creata, ciascuna secondo la propria natura e la propria identità.

Dunque, vedete che il discorso è importante perché qui si giocano i grandi temi del nostro tempo, di ogni tempo, temi di grande attualità. Pensiamo alle politiche sanitarie, alle politiche ambientali, dove vengono usate entrambe le armi: negazione dei diritti reali, invenzione di diritti presunti. Tutti hanno questa caratteristica in fondo, cioè che non si riconosce più una creazione, un Creatore, una realtà che in qualche modo mi comunica qualche cosa che è e che io riconosco, ma siamo invece sul versante della creazione umana e della manipolazione da parte dell’uomo.

Il grande segnale è sempre lo stesso, cioè che per realizzare questi piani ideologici, non giusti perché non collimano con la realtà, ci saranno sempre alcuni uomini che sono “meno uomini” di altri e ai quali dunque non va riconosciuto ciò che è riconosciuto agli altri. E altri invece saranno “più uomini” di altri, per cui avranno dei diritti particolari che ad altri uomini non vengono riconosciuti.

C’è un ultimo aspetto che voglio presentare oggi, per dare un altro spunto. Così come questa giustizia assolutamente necessaria per l’ordine del corpo sociale, per l’ordine della vita in questo mondo, si fonda su un atto che non è di giustizia – ripeto, non perché sia un atto ingiusto. ma perché è un atto più grande di un atto di giustizia: la giustizia si fonda infatti su qualcosa che è più grande di lei –, analogamente noi dobbiamo ammettere che per l’ordine del corpo sociale, per l’ordine della vita di quaggiù, la giustizia è necessaria ma non è sufficiente.

Cioè, la giustizia è necessaria, l’ordine del corpo sociale dipende dalla giustizia, ma quest’ultima non basta per l’ordine del corpo sociale. Non basta sotto due aspetti. Primo, nei confronti proprio della vita sociale e delle relazioni tra gli uomini. Perché non basta? Perché la vita sociale, per essere vissuta con serenità, con pace, non con tensione, ha bisogno di molti atti che esulano dalla giustizia, cioè atti che non sono strettamente dovuti a qualcuno, per esempio la gratitudine. La gratitudine non è un atto strettamente necessario, ma pensate cosa sarebbero le relazioni sociali senza la gratitudine. Altro esempio: la liberalità, cioè dare più di quello che è strettamente necessario a qualcun altro, aiutare qualcuno verso cui non ho uno stretto dovere di aiuto, di ausilio. Pensate la cortesia, la gentilezza: non è strettamente dovuta. Pensate cosa sarebbe il mondo delle relazioni umane senza tutti questi aspetti che sono necessari tanto quanto la giustizia, ma che non devono scalzare la giustizia.

E poi c’è un altro aspetto ancora più fondamentale, perché è un fondamento, che riguarda la relazione nei confronti di Dio. Se ricordate, abbiamo dedicato una delle prime lezioni alla virtù di religione, ciò che si deve a Dio: gli atti interni di devozione, gli atti esterni di adorazione, eccetera. Ma a ben guardare, noi, che pure dobbiamo questo a Dio, non possiamo dire che glielo dobbiamo nel senso di stretta giustizia perché il debito nei confronti di Dio, il debito dell’essere e il debito della Redenzione, non sarà mai colmato dai nostri atti di giustizia o di presunta giustizia verso di Lui. Gli atti di religione non potranno mai colmare questo debito. Ricordiamo la famosa parabola evangelica (Mt 18, 21-35) da questo punto di vista. Dunque, nei confronti di Dio abbiamo un debito che non possiamo mai soddisfare. In fondo la realtà, che deve essere segnata e caratterizzata dalla giustizia, proviene da un atto più grande della giustizia e richiede da noi qualcosa più grande della giustizia, precisamente perché questo “più grande” fonda la nostra stessa vita. E dunque noi nei confronti di Dio dobbiamo avere questa virtù di religione in tutte le sue componenti, anche se in realtà nemmeno questa è in grado di soddisfare pienamente la giustizia.

Abbiamo bisogno di qualche cosa in più. Qui si aprirebbe tutto il capitolo della Redenzione, della soddisfazione vicaria di Cristo: ne parleremo a tempo debito. Però il quadro che m’interessava darvi era questo, cioè che l’uomo giusto è colui che in modo costante, perenne, dà a ciascuno il suo, perché recettivo di questo suum, cioè lo riconosce, non lo vuole determinare, non lo vuole manipolare, ma lo vuole onorare, vuole corrispondere a ciò che è dovuto alle altre creature, in particolare a quelle di pari dignità – all’uomo – e ancor più a Dio.

La prossima volta finiamo questo breve excursus sulle quattro virtù cardinali e ne vedremo la regina, che è la prudenza.



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