La gioia di vivere di Ale che smaschera l'eutanasia
Un giovane calciatore in “stato vegetativo” per 14 anni, curato amorevolmente a casa dai suoi cari, e che proprio in quegli anni ha raggiunto vette di vita e di umanità che il mondo - vittima dei dogmatismi eutanasici - ignora. Esce in un libro, "E adesso parlo io", la storia di Alessandro Pivetta, tornato al Padre a 34 anni, raccontata dal giornalista Fabio Cavallari.
Alessandro Pivetta è stato il primo e finora unico caso di persona in stato vegetativo che parlava. Voi obietterete: allora non era in stato vegetativo. Lo era invece - seppur questa espressione anche in campo scientifico stia diventando sempre più logora - solo che a dar voce ai suoi pensieri è stato Fabio Cavallari, giornalista di lungo corso e indagatore delle vite al limite e dei limiti della vita (e di quelli della morte).
Cavallari è stato cronista ad limina nel secondo tempo della vita di Alessandro, quel secondo tempo che è iniziato dopo uno schianto in auto e che è durato, contando anche un paio di supplementari strappati alla morte, per 14 anni. Un tempo vissuto da attore, non da soprammobile di carne allettata, un attore che si è spinto sino ai confini dell’esistere, che ha raggiunto il colmo della vita, ridotta ai minimi termini solo per chi è duro d’orecchi e di cuore e non per chi, come Cavallari, è rabdomante di seppur flebili segnali di vita provenienti da pianeti apparentemente distanti come quello su cui abitava Alessandro.
Il nostro reporter di guerra - perché vivere è sempre battagliare, non solo per Ale - ha messo in campo una qualità rara, tanto quanto, oggigiorno, è raro il buon senso: la capacità di ascolto. Ha ascoltato Alessandro, anche attraverso i racconti dei suoi amici e soprattutto dei suoi cari che lo hanno curato a casa, e ha così rivestito i panni della persona loquens, depositando i desideri, gli eccessi verbali, gli sprazzi di felicità, le accese intemperanze di questo giovane di 34 anni morto nel gennaio del 2020 in uno scrigno di carta che ha pubblicato da poco e che reca il titolo icastico: “E adesso parlo io” (Lindau). Ne è uscito un ritratto di un uomo onnivoro - se non bulimico - di vita, di una vita iperbolica, quasi ipertrofica, contenuta negli spazi infiniti della sua interiorità, anzi della sua intimità.
Il centro di gravità di questo monologo interiore, diventato esteriore grazie al lapis puntuto di Cavallari, è forse questo: lo stato vegetativo stava ad Alessandro come il termine indiano stava ai pellerossa. Un errore madornale. Il giornalista, nonché interprete della coscienza brillante di Ale, ha sollevato il velo della disabilità estrema - che rende tutta la seconda vita di Ale ugualmente estrema - e ha fatto rilucere la persona. Dallo stato vegetativo allo stato personale (pure persistente). Il giovane di Pordenone ed ex calciatore, nel suo secondo tempo, ha girato il mondo, Egitto compreso, ha trascorso un capodanno in montagna, ma soprattutto è stata presenza ingombrante. La sua fissità fisica - solo un sipario dietro cui un attore febbricitante ed emozionato ripete mentalmente la propria parte prima di andare in scena - ha provocato dinamiche fin troppo previste ed altre assolutamente impreviste: imbarazzi, paure, stereotipi piccolo-borghesi, angosce nate dal far precipitare lo sguardo nell’abisso dei propri limiti, cuori lanciati oltre gli ostacoli del perbenismo, dogmatismi eutanasici frantumati, senso di vertigine per un’esistenza fisicamente impassibile e, secondo molti, impossibile da vivere, ma che ha raggiunto vette, non sappiamo se di santità, ma certamente di umanità a tutto tondo.
In breve, al termine della lettura di questo diario di bordo, è il lettore a sentirsi in stato vegetativo, inchiodato nel proprio immobilismo fatto di luoghi comuni sulla disabilità e sui limiti dell’affetto umano. A tal proposito una volta Italo Calvino, dopo aver visitato un brefotrofio, disse: “L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.”
Ma torniamo ad Alessandro che per mano di Cavallari scrive: “Quando vedo il vostro imbarazzo, quando capisco che siete in difficoltà, lì, davanti a me, io rido. Per carità, potete non credermi. Mica sono qui a chiarire i vostri dubbi. Confesso che non me ne frega niente”. Sì, Alessandro in queste righe come in molte altre si dimostra uomo ruvido. Potremmo dire che è la sua condizione a renderlo così. Ma non è ruvido, è solo vero, autentico, lontanissimo dai soliti cliché che vogliono una persona nelle sue condizioni come vittima del Fato da trattare con pietà, anzi con pietismo, degno solo di una lacrimevole quaestua della nostra buona educazione. Abbiamo scritto che Ale non è ruvido, è solo vero. Dobbiamo rettificare: è la verità ad essere spesso ruvida per la pelle delicata che riveste le nostre anime belle, così ben istruite al politicamente corretto, a voltare la testa verso ciò che compiace e solletica il nostro amor proprio, a incasellare tutto - anche la vita che cuoceva a fiamma alta di Ale - in sterili griglie Excel della nostra mente. E quando qualcosa è fuori schema si grida alla bufala (oggi fake news), oppure si risponde a colpi di ideologia: Ale voleva vivere? Scelta sua. Piergiorgio Welby ha fatto un’altra scelta.
Ma il monologo di Alessandro raccolto dalla maestria di Cavallari scavalca simili minutaglie dialettiche e va al cuore pulsante del problema: Ale era ed è persona. Certamente incapace di esprimere questa sua personalità, però al pari di tutti noi quando rimaniamo senza parole di fronte ad un sole che, sfiancato da un lungo e torrido giorno agostano, va a morire nel suo tramonto, alla trascendente purezza di un neonato che misteriosamente ci sorride, alla cattedrale di suoni di una Passione secondo Matteo scritta dal quinto evangelista di nome Johann Sebastian Bach.
E noi siamo rimasti senza parole anche quando Ale (nella foto in alto con la madre; qui in basso con la sorella Tatiana) nel suo libro ci ha parlato.