La fuga del signor Monde
Un romanzo per entrare nel mondo di Georges Simenon: una storia in cui l'ansia di cambiar vita di un placido imprenditore parigino testimonia la continua ricerca di senso dello scrittore francese, padre dell'indimenticabile commissario Maigret.
Con cadenza regolare, Adelphi sta ristampando l’opera omnia di Georges Simenon, lo scrittore belga che sarebbe riduttivo classificare solo come il giallista creatore del commissario Maigret. Invece, nella sua lunga vita, Simenon ha scritto decine e decine di libri, racconti che chiamava romans durs e che riscossero l’ammirazione di personaggi come André Gide o Federico Fellini, che lo consideravano, senza mezzi termini, un maestro. Verrebbe persino da chiamare fortunati quanti non hanno ancora aperto un suo libro, perché hanno davanti a sé ancora infinite possibilità di lettura.
La fuga del signor Monde è ben rappresentativo dei caratteri del romanzo-tipo simenoniano, e può essere un utile avvio alla conoscenza di un autore immenso e in Italia ancora sottovalutato. Il protagonista, il signor Monde del titolo, è un placido imprenditore parigino, erede di una solida ditta a conduzione familiare, la quintessenza della borghesia francese, tutta decoro, lavoro e routine. Ma un giorno, proprio il giorno del suo quarantottesimo compleanno, Monde lascia tutto, casa, famiglia, lavoro, e, senza lasciare notizie di sé, fugge al Sud, in Costa Azzurra. Là, instaura uno strano ménage con un’entraîneuse, una ragazza carina e un po’ sbandata, che Monde aiuta quando il giovane ladruncolo con cui è fuggita l’ha abbandonata. Lavorando nell’ambiente un po’ equivoco dei night –club, senza più le preoccupazioni di decoro, di decenza, di ordine, senza le costrizioni previste da quella vita precisa e ben preordinata fin dalla sua nascita, Monde si sente rinascere: paradossalmente, e proprio a dispetto dell’apparente squallore, si sente libero e leggero, anche e soprattutto dopo che una cameriera disonesta gli ha rubato i trecentomila franchi prelevati per finanziare la fuga.
L’esistenza di Monde, vissuta all’insegna della costrizione, pare così riprendere un respiro e un’ariosità nuova, senza più pesi e confortata dalla visione del mare, a contatto con una libertà quale l’uomo non aveva mai neppure potuto immaginare: perché è l’atmosfera a fare il valore dei romanzi di Simenon, quell’atmosfera in cui siamo calati perfettamente con poche pennellate. L’asfissia della vita quotidiana che coglie il signor Monde, infatti, più che descritta, è suggerita; conseguentemente, l’anelito alla libertà è una “tentazione” che l’aveva colto già più volte (p. 31) a partire dai suoi dolorosi ricordi di figlio diligente di un padre troppo allegro, donnaiolo e farfallone, e poi di marito ottuso, eppure devoto, di una donna, Thérèse, afflitta da vizi e perversioni irriferibili. Da Thérèse Monde divorzierà, per poi ritrovarla proprio in Costa Azzurra come dama di compagnia di una donna ambigua che farà una brutta fine.
Questo sogno di libertà totale che anima il signor Monde, lo cambia profondamente, tanto da renderlo un uomo profondamente diverso anche quando sarà rientrato a Parigi, nella normalità. Ma il mutamento repentino e insieme radicale, l’ansia di dare una sterzata alla propria vita, soprattutto quando la vita è quella di personaggi apparentemente irreprensibili, ipercontrollati, se ampliamo l’orizzonte di osservazione anche ad altre opere di Simenon, è una costante nell’ordito dei racconti. In essi, infatti, troviamo una ricerca di senso che sfocia, quando delusa, in un atto insensato, gratuito, di rottura con le regole, con la famiglia, con la decenza, con la tradizione, persino con la legge.
Nel 1954, per esempio, lo stesso anno in cui Elia Kazan con La valle dell’Eden e Nicholas Ray con Gioventù bruciata iniziarono a portare al grande pubblico il tema della ribellione giovanile, spesso autolesionistica, contro la famiglia e la società, Simenon dà alle stampe lo sconvolgente L’orologiaio di Everton, una delle sue opere forse più grandi, perché, non va dimenticato, il nostro è un grande autore, un maestro, che si traveste da autore popolare. Il protagonista del romanzo, Dave Galloway, è un uomo tranquillo e grigio, mite orologiaio in una cittadina di provincia che, dopo la fuga della moglie, ha allevato da solo il figlio Ben, un ragazzo all’apparenza quieto, studioso e tranquillo. La routine delle giornate dell’uomo, trascorse all’insegna di una certa ritrosia alla comunicazione fra padre e figlio, viene sconvolta quando il ragazzo, sedicenne, scappa con la fidanzatina Lillian, uccidendo, rapinando e ferendo un agente di polizia in uno scontro a fuoco.
L’inesplicabilità di tale atto pone Galloway, che pure non ripudierà mai il figlio, davanti alla consapevolezza di non conoscere veramente il ragazzo, come capita del resto a molti genitori, di non avere mai comunicato con Ben, di avere lasciato che troppi silenzi si insinuassero fra di loro. Ma del resto, pare chiedersi Simenon, se anche Dave avesse avuto maggiore confidenza con il ragazzo, se anche fosse riuscito a spiegare tutto quel guazzabuglio che è il cuore dell’uomo per dirla con Manzoni, le cose sarebbero andate poi diversamente? E che cosa si cela dietro l’inquietante tranquillità del ragazzo, che accoglie impassibile e quasi sorridente la condanna all’ergastolo? Forse il desiderio di farla finita e di rompere per sempre, tramite un atto eclatante e definitivo, con una vita vuota e insensata?
Proprio in questo risentimento che sfuma nell’indulgenza, nella comprensione finale per il dolore del vivere altrui, risiede il senso ultimo di quello che potremmo chiamare l’umanesimo simenoniano, già individuato, e fatto oggetto di lode, insieme alla maestria tecnica, da André Gide. Un umanesimo in cui, è vero, non brilla la luce della fede, o della speranza; ma in cui, a dispetto della disperazione che spesso intride le sue pagine, brilla una luce profonda di umanità e di comprensione per quel dolore esistenziale che accomuna e affratella tutti gli uomini.
Georges Simenon
La fuga del signor Monde
Adelphi, pagine 154, euro 17.