La centralità del maestro nel Medioevo cristiano
Nel Medioevo si impara a scolpire, a dipingere, a scrivere andando a bottega, da qualcuno che conosce bene il mestiere. L’uomo cresce in un percorso guidato, in una compagnia. E ciò avviene in un’epoca in cui, soprattutto, si è più consapevoli che la propria salvezza dipende da un Altro.
Il mestiere del maestro, inteso in senso ampio, non semplicemente come insegnante di scuola, è centrale nella vita dell’uomo medioevale. In senso pieno, maestri sono anche le figure del papà e della mamma o del prete confessore o dell’artigiano che insegna la pratica all’allievo.
Nel Medioevo si impara a scolpire, a dipingere, a scrivere andando a bottega da qualcuno che conosce bene il mestiere. L’uomo cresce in un percorso guidato, in una compagnia. Il pellegrinaggio ben rappresenta l’immagine dell’homo viator, del viandante che si affida ad una guida e a un maestro, mentre il termine «avventura» descrive appropriatamente la dimensione di scoperta del mistero nella realtà. L’uomo medioevale si percepisce come un peccatore che dipende da Dio. Questo svela il santo eremita nel Perceval di Chrétien de Troyes o, se vogliamo, con definizione altrettanto felice, un «nulla capace di Dio», secondo la bellissima espressione del romanziere e saggista francese Daniel-Rops.
L’uomo medioevale non è meno peccatore dell’uomo delle altre epoche, ma ha più chiara la consapevolezza di esserlo e di aspettare la propria salvezza da un Altro. Quest’Altro è quel Dio che si è incarnato e a cui noi siamo guidati attraverso la compagnia della Chiesa, che risollecita e mantiene sempre sveglia la nostra domanda religiosa. Il termine «mendicanza» sottolinea l’atteggiamento di umile richiesta di aiuto nella consapevolezza della pochezza della capacità umana e della necessità che sia Dio a soccorrerci e salvarci.
In due opere centrali del Medioevo cristiano, come il Perceval e la Divina commedia, la figura del maestro appare fondamentale nell’intreccio.
Tenuto dalla madre lontano dalla città per paura che possa intraprendere la strada del padre e del fratello, entrambi morti nell’adempimento dei propri compiti, un giorno Perceval incontra dei cavalieri. Non ne conosce il nome, ma, affascinato dall’armatura, comprende che anche lui vuole seguire le loro orme. La madre lo lascia partire. Nel tempo viene educato alla cavalleria dal maestro Gornemant de Goorn, imparando a prestare soccorso ai deboli, alle donne e ai bimbi, apprendendo il codice della cavalleria. Si innamora, poi, della bellissima Biancofiore, ma l’abbandona per ritornare dalla madre. Dopo diverse vicissitudini si imbatte nella grande avventura. Un ostacolo, un fiume, posto sul suo cammino è l’occasione di conoscere un pescatore che invita Perceval nella sua abitazione. Lì il pescatore si presenta al cavaliere come un re ammalato. Perceval assiste a una scena strana: un paggio porta una lancia insanguinata, mentre una dama segue con una larga coppa in mano, un Graal, che emana una luce luminosa. Vorrebbe chiedere e domandare quale sia il significato del gesto. Ma non chiede. Non ha ancora appreso l’atteggiamento della mendicanza. Per questo la reggia scompare e il cavaliere riparte alla ricerca del Sacro Graal.
Quanti maestri Dante incontra nel suo viaggio nell’aldilà: il retore Brunetto Latini, che insegna al poeta in gioventù l’ars dictandi e la composizione di lettere in latino; il gruppo dei grandi poeti antichi che trova nel Limbo (Omero, Lucano, Orazio, Ovidio); Stazio, autore della Tebaide, con cui condivide l’ultima parte del viaggio nel Purgatorio dalla balza degli accidiosi fino all’Eden; le guide che l’accompagnano nei tre regni, Virgilio, Beatrice, san Bernardo; infine, quegli apostoli (san Pietro, san Giacomo, san Giovanni) che gli sottopongono le domande sulla fede, sulla speranza, sulla carità, che costituiscono un vero e proprio esame di baccelliere, che nel Medioevo si affrontava proprio a trentacinque anni (l’età che ha Dante nella finzione letteraria della Commedia, ambientata nel 1300) per conseguire la facoltà di insegnare ovunque.
Nella Firenze degli anni Settanta e Ottanta del Duecento non vi sono tante possibilità per proseguire gli studi in letteratura e retorica se non affidandosi ad un maestro privato. Non molti sono i maestri di retorica presso cui studiare. Dante si affida a Brunetto Latini (ca 1220/1230-1293), presentato da Giovanni Villani come «cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini […] e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica». Autore dell’enciclopedia in francese Tresor, di una versione dell’enciclopedia in versi toscani chiamata Tesoretto, del Favolello (un poemetto sull’amicizia) e di alcuni volgarizzamenti di opere retoriche e di orazioni di Cicerone, Ser Brunetto insegna a Dante quella scrittura colta e professionale che tanto gli servirà negli incarichi ricoperti successivamente come diplomatico e uomo dotto di corte. Dante viator manifesta tutto il suo affetto figliale per Brunetto, suo maestro in vita, colui che ha insegnato a Dante come conseguire la fama e la gloria attraverso la scrittura.
Anche nel Purgatorio Dante incontra un maestro di scrittura, che, però, non ha mai conosciuto realmente, ma solo attraverso i versi: si tratta di Guido Guinizzelli, padre suo e di tutti i poeti stilnovisti. Quando Dante sente pronunciare il nome di Guinizzelli, si vorrebbe buttare nel fuoco per salvarlo e portarlo fuori dalle fiamme, ma il timore della fiamma lo tiene lontano dal maestro, pur non impedendogli di mostrare tutta la sua stima per quel padre. Guinizzelli, pieno di umiltà, chiede al poeta fiorentino quali siano le ragioni di una stima così sconfinata. Allora, Dante replica: «Li dolci detti vostri,/ che, quanto durerà l’uso moderno,/ faranno cari ancora i loro incostri». Guinizzelli addita dinanzi a sé il più grande nel suo parlar materno, il provenzale Arnaut Daniel (1150 circa, 1210 circa), l’inventore della sestina, interprete del trobar clus.
Due cenni sono doverosi, infine, ai tre apostoli (san Pietro, san Giacomo, san Giovanni), presso i quali Dante viator sostiene un esame composto da tre parti, ciascuna delle quali è costituita da una quaestio. Nel Medioevo, solo alla fine dell’argomentazione del discepolo, il maestro interveniva per integrarne eventualmente il discorso. Tanto più brevi erano gli interventi finali quanto più valida era da considerarsi la prova sostenuta dal baccelliere. Il superamento dell’esame è per il poeta un’ulteriore comprova del valore del cammino compiuto e dell’insegnamento appreso.