L'8 settembre della Chiesa: vaccinati e proni allo Stato
La nuova chiesa sanitariamente corretta esorta alla sanità. Nella lettera dell'8 settembre ai vescovi, la Cei traduce la "nuova rivelazione" del vaccino atto d'amore nell’imperativo morale di vaccinarsi per ministri straordinari della Comunione, cantori, coristi, educatori e catechisti. Entra in scena anche Avvenire che lascia campo libero allo Stato nel legiferare sull'obbligatorietà anche per le cose sacre. La Diocesi di Milano passa poi dalla raccomandazione all'obbligo di green pass, dove si tocca il ridicolo con l'impossibilità di controllare eventuali sgarri... però si ricorda ai preti il dovere dell'obbedienza.
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All’inizio della stagione pastorale, nell’anno 2 d.P. (dopo la Pandemia), la nuova chiesa sanitariamente corretta non poteva far altro che esortare alla sanità, anziché alla santità. E quale mezzo sicuro di salvezza abbracciare, se non quel non ben identificato siero, impropriamente denominato vaccino?
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, in data 8 settembre, ha emesso la sua epistola - che per ora ci viene risparmiato di udire al posto delle ormai datate lettere di san Paolo - per esortare alla cura delle relazioni.
Eravamo già da tempo abituati alla triste realtà che la relazione con Dio non rientra nei temi preferiti dalla CEI, che infatti non si smentisce; ma nell’epoca del Covid, la cura delle «relazioni di solidarietà, comunione e attenzione verso tutti, soprattutto i più deboli» non può che declinarsi nell’imperativo morale di vaccinarsi. Dopo aver citato due massime fonti della Rivelazione, ossia il videomessaggio di Francesco del 18 agosto scorso - quello del vaccino come «atto d’amore», per intenderci -, e l’intervento del presidente della Repubblica al Meeting di Rimini, la lettera si appella alle coscienze dei fedeli perché si lascino scuotere dalla richiesta di compiere questo “atto d’amore”.
«La cura delle relazioni chiede d’incentivare il più possibile l’accesso alla vaccinazione dei ministri straordinari della Comunione Eucaristica; di quanti sono coinvolti in attività caritative; dei catechisti; degli educatori; dei volontari nelle attività ricreative; dei coristi e dei cantori». Di conseguenza, si invitano «le Conferenze Episcopali Regionali e ciascun Vescovo» a «formulare messaggi o esortazioni per invitare alla vaccinazione tutti i fedeli e, in particolar modo, gli operatori pastorali coinvolti nelle attività caratterizzate da un maggiore rischio di contagio, come quelle elencate». Eventuali gravi effetti avversi alla vaccinazione o perfino decessi tra questi operatori pastorali saranno probabilmente glorificati come il coronamento di atti eroici d’obbedienza e d’amore.
La Presidenza CEI, rivolgendosi ai ministri straordinari dell’Eucaristia e ai coristi, sconfina decisamente nell’ambito sacramentale e liturgico; nel contempo sembra però riconoscere che oltre l’esortazione non si possa andare. E così, in questo squallido teatrino del sanitariamente corretto, entra in scena il quotidiano dei Vescovi italiani, che in un articolo firmato da Giacomo Gambassi chiede sostanzialmente allo Stato che ci pensi lui a passare dalla raccomandazione del vaccino per la vita liturgica e l’attività pastorale all’obbligatorietà.
«La Cei non può imporre l’obbligo vaccinale all’ombra del campanile - scrive Avvenire - perché il tema “è affidato alle competenti autorità dello Stato”, si legge nella missiva» della Presidenza. Peccato che nella lettera della CEI il soggetto del virgolettato non è il tema dell’obbligo, bensì la più generale «materia della salute pubblica», precisando che «finora l’obbligo vaccinale riguarda solo alcune circoscritte categorie di lavoratori. La normativa civile attuale non prevede l’obbligo vaccinale né richiede la certificazione verde per partecipare alle celebrazioni o alle processioni né per le attività pastorali in senso stretto». Avvenire esplicita quanto nella lettera si affaccia solo timidamente: e cioè che lo Stato abbia la competenza di imporre condizioni per la partecipazione al culto cattolico. In pratica si autorizza lo Stato italiano a legiferare in sacris, perché va da sé che un eventuale obbligo sanitario come conditio sine qua non per la partecipazione alla liturgia e alla vita sacramentale della Chiesa significherebbe ciò. Il quotidiano dei vescovi italiani sembra così ammiccare allo Stato, affinché intervenga lui dove i poveri vescovi nulla possono...
Nemmeno ventiquattr’ore dopo la lettera della Presidenza CEI, la Diocesi di Milano, delle cui idee strampalate ci siamo occupati a più riprese (vedi qui e qui), passa direttamente dalla raccomandazione all’obbligo, probabilmente interpretando in modo creativo la conclusione della lettera che lasciava «inalterata la facoltà di ogni singolo Vescovo di definire criteri che consentano di svolgere le attività pastorali in presenza, in condizioni di sicurezza e nel rispetto della normativa vigente».
Il Vicario generale della diocesi ambrosiana, mons. Franco Agnesi, ha infatti firmato un decreto fantascientifico. In sostanza, lo svolgimento di diverse attività pastorali e sacramentali è subordinato ad una di queste tre condizioni: almeno la prima dose del vaccino, dalla quale devono essere trascorsi come minimo 14 giorni; essere guariti dall’infezione Sars-Cov-2 da non oltre 180 giorni; aver effettuato nelle 48 ore precedenti un test diagnostico approvato, con esito negativo. Soggetti a queste condizioni sono i Ministri ordinati che devono «visitare gli ammalati; tenere incontri di catechismo e prendere parte come operatori ad attività educative e didattiche gestite dalle Parrocchie»; Accoliti e Ministri straordinari dell’Eucaristia, per poter continuare a svolgere il loro ministero; «catechisti, educatori, insegnanti al doposcuola o alle scuole di italiano per stranieri gestite dalle Parrocchie, operatori maggiorenni di attività educative e didattiche gestite dalle Parrocchie»; e infine coristi e cantori.
Al decreto è seguita una Nota esplicativa dell’Avvocatura dell’Arcidiocesi che, se non fosse per la tragicità del momento, potrebbe solo far ridere. Già, perché la domanda ovvia è: chi deve controllare che questi operatori parrocchiali abbiano tutti questi requisiti? Che è come dire: chi è disposto a beccarsi una denuncia? Risposta dell’Avvocatura: nessuno. Sissignori, proprio nessuno: «Non sono previste specifiche misure di verifica. Non è richiesto, pertanto, che venga mostrato o consegnato un certificato di vaccinazione o di guarigione o di esenzione dalla vaccinazione e neanche l’esito di un test diagnostico». Per ovviare alla montagna di problemi giudiziari che un eventuale controllo di dati protetti dalla privacy genererebbe, l’Avvocatura si inventa un’autodichiarazione (scaricabile qui), con corrispondente informativa sulla privacy da esporre nelle bacheche, in cui si specifica che «il rifiuto di consegnare l’autodichiarazione impedisce la possibilità di prestare il servizio per cui è richiesta». Pare che, per ora, non sia previsto il servizio di buttafuori; si potrebbe chiedere agli scout, o al gruppo sportivo dei lottatori di sumo che utilizzano per gli allenamenti le palestre della parrocchia.
In questa autodichiarazione si dichiara sotto la propria responsabilità l’impegno al rispetto del regolamento introdotto con il decreto, di non avere sintomi compatibili con il Covid-19, di non essere in quarantena e di non aver avuto nelle ultime due settimane i mitici contatti stretti; e infine «di essere a conoscenza delle sanzioni previste dalla normativa emergenziale in vigore» (sic!).
Ultima chicca della Nota informativa: «Ai Ministri ordinati non è richiesto di assumere questo specifico impegno in forma scritta avendo già un particolare dovere di obbedienza in virtù del vincolo dell’Ordinazione». Tanto per concludere in un modo un po’ “mafioso”.