L'8 settembre 1943 iniziò la guerra civile perpetua
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L'Italia non ha mai elaborato il lutto dell'8 settembre 1943, l'armistizio con gli Alleati. Nonostante la Resistenza, l'Italia era fra le nazioni sconfitte. Solo dopo mezzo secolo si è potuto parlare di "guerra civile" per il conflitto che seguì quella pace. Un conflitto interno usato ancora dalla retorica della sinistra per demonizzare gli avversari.
Ottant'anni fa, l'8 settembre del 1943, veniva reso noto l'armistizio firmato il 3 dello stesso mese dal governo italiano con i comandi delle truppe alleate angloamericane, che sanciva la resa del nostro Paese e il passaggio dallo stato di nemici a quello di “cobelligeranti” con i Paesi che avevano invaso militarmente la penisola a partire dal mese di luglio.
Quella resa, che giungeva a poco più di un mese dalla destituzione di Benito Mussolini avvenuta il 25 luglio e dalla formazione del primo governo Badoglio, venne percepita, nell'immediato, nella società italiana, come la fine di una vicenda luttuosa, ma fu in realtà l'inizio per essa di un altro incubo, se possibile ancora peggiore: più di un anno e mezzo di sanguinosa guerra sul territorio nazionale tra tedeschi e angloamericani, accompagnata ancora da bombardamenti, stragi di civili, miseria; e, in aggiunta, una guerra fratricida tra la repubblica fascista che Mussolini, sotto l'egida hitleriana, aveva costituito nel Nord del Paese e le formazioni partigiane antifasciste.
Si trattò forse della pagina più tragica nella storia italiana a partire dalla formazione dello Stato unitario. Non soltanto per i lutti e le distruzioni portati dal conflitto, ma perché la serie di eventi inaugurati dall'armistizio rappresentò per il Paese la fine di una lunga illusione: quella di un processo di nation building e di crescita ininterrotta destinato a condurre la giovane nazione, nata politicamente nel 1861, a occupare un posto dignitoso nel novero delle grandi potenze. Un'illusione alimentata dalla classe politica post-risorgimentale liberale, poi fatta oggetto di incessante retorica e propaganda da parte del regime fascista a sostegno di processi di modernizzazione impervi e profondamente conflittuali, e infine crollata miseramente “all'apparir del vero” della manifesta inadeguatezza mostrata dalle forze armate nel grande scontro mondiale.
Ma dopo l'8 settembre, nell'epoca dell'”Italia tagliata in due”, con la precipitosa fuga della Corte e del governo a Brindisi e lo sbandamento dell'esercito, al trauma della disillusione e all'umiliazione della sconfitta si aggiunse la paurosa sensazione di una possibile dissoluzione della compagine nazionale stessa, della fine di ogni punto di riferimento istituzionale e di ogni principio comunemente condiviso. Si affacciò, insomma, l'inquietante idea della “morte della patria”, espressione tratta dal libro di Salvatore Satta De profundis che sarebbe stata imposta nel dibattito storiografico e civile molti decenni più tardi dal volume di Ernesto Galli della Loggia così intitolato, pubblicato nel 1995.
La vittoria degli Alleati e la ricostruzione della democrazia in Italia sotto la sfera della superpotenza statunitense contribuirono a sanare, non senza fatica, quel vulnus, pur nella situazione di estrema tensione internazionale causata dalla incombente guerra fredda tra Occidente e impero comunista sovietico. E i partiti che andarono a formare la classe politica del nuovo ordinamento pluralista cercarono di esorcizzarlo, elaborando una “narrazione” che individuava nell'8 settembre l'inizio della liberazione del Paese dalla dittatura e dall'invasione hitleriana, enfatizzando oltre ogni misura il ruolo svolto dalla Resistenza, rifiutando la natura di guerra civile al conflitto tra essa e la Repubblica sociale (solo nel 1991 la dizione cominciò a essere accettata dagli storici dopo la pubblicazione del libro di Claudio Pavone Una guerra civile), tacendone le profonde divisioni ideologiche interne tra partigiani liberali, cattolici, militari da un lato, social-comunisti filosovietici dall'altro. Una narrazione funzionale a presentare, nel dopoguerra, l'Italia non come un paese sconfitto, ma in qualche modo vincitore, e a tenere insieme simbolicamente una classe politica unita invece soltanto dall'opposizione al passato regime, ma le cui componenti si avviavano a posizionarsi sulle due sponde contrapposte della “cortina di ferro”.
Si trattava di una soluzione retorica e opportunistica, destinata a essere sconfessata drammaticamente dalla realtà concreta della storia post-bellica italiana. La presunta assimilazione del Paese al carro dei vincitori venne platealmente smentita dal duro trattamento subìto dall'Italia da parte dei vincitori stessi alla Conferenza di Parigi con le clausole del trattato di pace del 1947, soprattutto sulle questioni del confine orientale e delle colonie. Quella dell'unità ideale fondata sulla Resistenza antifascista si infranse, appunto, entro pochi anni con l'importazione della guerra fredda nella dialettica politica interna e la contrapposizione drastica tra la coalizione centrista e il Fronte popolare delle sinistre di osservanza stalinista.
Per poter gestire politicamente l'eredità di quella ferita, ed elaborarne il lutto, occorreva innanzitutto riconoscerla. E tra i leader della nuova classe politica italiana il solo Alcide De Gasperi ebbe la saldezza interiore, il senso di prospettiva, il realismo e la lungimiranza per farlo, ponendo effettivamente basi durevoli per la convivenza pacifica della società, la continuità delle istituzioni, la stabilità e la crescita socio-economica del Paese. Erede e continuatore di una cultura politica come quella cattolica, che, pur subendo il regime, era riuscita a mantenere nel ventennio mussoliniano cospicui spazi di autonomia, De Gasperi era consapevole del fatto che nella guerra non era stato sconfitto soltanto il fascismo, ma l'Italia intera, anche quella che al fascismo si era opposta, e che proprio da quella sconfitta era necessario ripartire, con umiltà e riconoscendo gli errori commessi, per costruire un futuro migliore. Una consapevolezza da lui espressa simbolicamente con il suo intervento alla Conferenza di Parigi, e tradottasi negli anni della sua leadership governativa nell'ancoraggio solido della nuova democrazia italiana alla rete dell'integrazione europea nell'ambito dell'alleanza occidentale.
Ma l'oculata costruzione politica degasperiana, base del “miracolo italiano”, riuscì soltanto ad attenuare, non a superare, la lacerazione profonda del Paese manifestatasi nel biennio 1943-1945, e perpetuatasi poi in altra forma nel dopoguerra e nell'età repubblicana. All'Italia refrattaria all'ideologia, che guardava avanti, ha continuato nei decenni successivi a contrapporsi insistentemente, con livore, la sinistra egemonizzata dal Partito Comunista, e poi dalle forze che ne hanno raccolto l'eredità politica. Che, per legittimare se stesse e delegittimare i propri avversari, non hanno mai smesso di tentare di imporre di quel biennio una visione stereotipata, propagandistica e divisiva, in cui il “vero” antifascismo era incarnato soltanto da loro; e paradossalmente, man mano che quel momento storico si allontanava, non hanno aperto la strada a un giudizio più equanime su quanto era allora accaduto, ma al contrario hanno sempre più alzato i toni, continuando a usare una esasperata retorica resistenziale, astratta e decontestualizzata, per dipingere il quadro manicheo di una lotta cosmica tra bene e male, in cui i loro avversari sono eternamente bollati come “fascisti”. Una retorica che, purtroppo, ritroviamo ancora oggi ad avvelenare le acque del nostro dibattito pubblico.