Kim Jong-un, 10 anni di dittatura. Vietato festeggiare
Dieci di anni di Kim Jong-un e in Corea del Nord è vietato ridere, o anche solo sorridere in pubblico. Il 17 dicembre, ieri, per chi legge, era l’anniversario della morte di Kim Jong-il, padre dell’attuale dittatore nordcoreano. È anche l'anniversario della successione di Kim Jong-un. E per il popolo nordcoreano c'è veramente poco da festeggiare.
Dieci di anni di Kim Jong-un e in Corea del Nord è vietato ridere, o anche solo sorridere in pubblico. Il 17 dicembre, ieri, per chi legge, era l’anniversario della morte di Kim Jong-il, padre dell’attuale dittatore nordcoreano. È anche un periodo di “festa” teoricamente, visto che alla morte del padre è seguita la successione di Kim Jong-un, ma il tetro protocollo cerimoniale del regime comunista preferisce il lutto. Per 11 giorni filati, dieci anni dopo quel fatidico 2011, la lista dei divieti è lunghissima. Oltre che vietato sorridere o ridere in pubblico, saranno vietati i matrimoni, i funerali, i compleanni, non si potranno bere alcolici nei locali. La pena è l’arresto e si può arrivare fino alla pena di morte.
C’è obiettivamente qualcosa da festeggiare in questi dieci anni di dittatura? Kim Jong-un ha inaugurato il suo “regno” con un’ondata di epurazioni che hanno colpito anche suoi parenti prossimi. E per lanciare segnali di sfida all’estero, ha ripreso ben presto sia i test nucleari che gli esperimenti di missili balistici intercontinentali, entrambi sotto sanzioni Onu. Nonostante tutto, ha anche cercato di mostrarsi come un leader moderno e più rispettoso dei diritti umani rispetto ai suoi predecessori. In dieci anni si sono registrate “solo” 27 esecuzioni in pubblico. L’elenco dei reati per cui quelle persone sono state fucilate include anche la visione e la distribuzione clandestina di video sudcoreani, come è avvenuto in almeno sette casi. Il carattere bagatellare di questi reati capitali induce a sospettare che le esecuzioni capitali siano state molte di più, anche se celate agli occhi del pubblico.
Quel che la Corea del Nord continua a negare è l’esistenza dei campi di concentramento, mai chiusi sin dai tempi di Stalin. L’arcipelago Gulag nordcoreano è stato documentato sia da foto satellitari che da testimonianze in presa diretta, sia di ex guardie che di ex prigionieri, raccolte dall’Ufficio dell’Onu per i Diritti Umani. I racconti riguardano anche il periodo che va dal 2012 al 2019, dunque l’era di Kim Jong-un. Lo scenario è simile a quello raccontato da Solzhenitsin sulla sua esperienza nel Gulag staliniano. I prigionieri sono costretti a lavorare in condizioni disumane, in alcuni racconti sono direttamente impiegati al posto delle bestie da soma per trainare carri e aratri. La mortalità è elevatissima, anche perché le punizioni fisiche sono frequenti e provocano lesioni gravi, mutilazioni e spesso anche la morte dei prigionieri.
Kim Jong-un, che ha studiato all’estero (in Svizzera) ha promosso di sé l’immagine di un leader moderno intento a riformare economicamente il Paese. Ma dieci anni dopo, la situazione è precipitata e lo stesso dittatore ha dovuto ammettere, la primavera scorsa, che il Paese sta attraversando un nuovo “arduo marzo”, il termine con cui è popolarmente conosciuta la grande carestia degli anni 90. La nuova crisi è stata innescata soprattutto dalla chiusura di tutte le frontiere, compresa quella con la Cina, per evitare l’arrivo del Covid-19. Dopo aver fermato tutte le importazioni, la popolazione fa la fame. Testimonianze raccolte da Open Doors, riferiscono di catasti del cibo e fabbriche alimentari circondate da filo spinato e presidiate da guardie armate, per impedire furti di cibo. La gente se la cava come può, anche mangiando erbe selvatiche. Se è vero che la situazione è precipitata a causa della chiusura delle frontiere, oltre che di una serie di tempeste e altri fattori naturali, l’agricoltura nordcoreana dà ancora una pessima prova di sé, dimostrando di essere ancora in balìa degli eventi naturali. Non è cambiato, poi, il criterio di distribuzione del cibo: prima i militari, poi il resto della popolazione. E nonostante ciò, il militare che nel 2017 riuscì a defezionare in Corea del Sud, ferito dai suoi ex commilitoni durante la fuga, venne trovato dai medici sudcoreani così malnutrito e infestato da parassiti da diventare un caso studio.
Sempre secondo Open Doors, la Corea del Nord è, per il ventesimo anno di fila, il Paese al mondo in cui i cristiani patiscono la persecuzione più estrema. «Essere individuati come cristiani è una sentenza di morte in Corea del Nord. Se non si viene uccisi all’istante, si viene deportati in un campo di lavoro per crimini politici. Queste prigioni disumane impongono condizioni orribili e si pensa che pochi fedeli ne escano vivi», recita l’inizio del rapporto sulla persecuzione dei cristiani nel 2021. Ufficialmente la religione è libera e, oltre a numerosi templi buddisti, a Pyongyang si possono trovare anche cinque chiese cristiane, tre protestanti, una ortodossa e una cattolica (la cattedrale di Changchung). Eppure i cristiani nordcoreani, stimati in circa 400mila, devono vivere nell’ombra, non possono praticare il culto né in pubblico, né in privato. Dai 50mila ai 70mila cristiani sono attualmente internati nei campi di concentramento. La Corea del Nord, sin dai tempi di Stalin, che insediò al potere Kim Il Sung (nonno di Kim Jong-un) nel 1948, è uno Stato ufficialmente ateo. O meglio: neopagano, perché i suoi leader, ormai una dinastia intera, sono venerati come se fossero dei. E per questo è vietato anche solo sorridere nei giorni in cui cade l’anniversario della morte dell’ultimo di questi dei.