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IL CASO

Istigazione al suicidio, giusta la condanna al presidente di Exit

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La Corte d’assise d’appello di Catania ha condannato Emilio Coveri (Exit-Italia), per aver rafforzato il proposito suicidario di una donna. Giusta la condanna, ma una parte della motivazione è curiosa e rivela la deriva pro-eutanasia del nostro ordinamento.

Vita e bioetica 01_07_2023

Più volte abbiamo parlato da queste colonne della famigerata sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale (qui un approfondimento). In quella sentenza si depenalizzava e legittimava l’aiuto al suicidio. Però rimaneva in piedi, disciplinato dall’art. 580 del Codice penale, il reato di istigazione al suicidio. Cosa significa? Significa che se Tizio ha già in animo di togliersi la vita e il medico Caio lo aiuta, nel rispetto di alcune condizioni previste dalla Consulta, non c’è reato. Se invece Tizio non aveva in animo di suicidarsi e Caio fa nascere in lui questo proposito oppure se Tizio accarezzava solo l’idea e Caio ne ha rafforzato il proposito, Caio finisce in galera.

E il carcere è la prospettiva che attende Emilio Coveri, presidente dell’associazione pro-eutanasia Exit-Italia. La terza sezione della Corte d’assise d’appello di Catania lo ha condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione, nonché a risarcire i danni per i familiari di una donna, Alessandra Giordano, che, nel marzo del 2019 e dopo essersi consultata con Exit, aveva fatto ricorso all’eutanasia in una clinica di Zurigo perché depressa e affetta dalla sindrome di Eagle (una sintomatologia dolorosa a bocca, testa, collo, gola e fronte che si risolve chirurgicamente nella maggior parte dei casi).

Secondo la Procura, Coveri «ha fornito un contributo causale idoneo a rafforzare un proposito suicidario prima incerto e titubante su una persona affetta da patologie non irreversibili benché dolorose, anche perché non ben curate, sfruttando l'influenzabilità della donna per inculcare le sue discutibili idee di suicidio assistito come soluzione alle sofferenze fisiche e morali della vita». Per l’accusa «la scelta individuale, assunta in piena autonomia, deve essere rispettata», ma occorre valutare se «noi riteniamo che sia lecito proporre alle persone che non versano in condizioni di patologia irreversibile, magari soltanto depresse, il suicidio come unico rimedio ai propri mali».

Giusta la condanna a Coveri, però ci suona curiosa una parte della motivazione della Procura: se il rafforzamento del proposito suicidario avviene su persona affetta da patologia non irreversibile è reato, se avviene su persona affetta da patologia irreversibile non è reato. Ma non è quello che dice il Codice penale, il quale non fa menzione di questa particolare condizione. La motivazione della Procura risente quindi del clima eutanasico diffuso dalla sentenza della Consulta, la quale indicava, come una delle condizioni per accedere all’aiuto al suicidio, proprio la presenza di una patologia irreversibile.

Eliminato il reato di aiuto al suicidio, ora è spesso arduo per i giudici comprendere se Caio ha semplicemente aiutato materialmente Tizio, che già voleva suicidarsi, a togliersi la vita oppure ne ha rafforzato il proponimento, configurando quindi un aiuto non materiale ma morale. Infatti cosa ha replicato Coveri? «La signora era una nostra associata e le abbiamo semplicemente fornito, su sua richiesta, le informazioni che le servivano per prendere una decisione. Una procedura normale». Aiuto materiale o morale?

Per coerenza, tolto il reato di aiuto al suicidio, si dovrebbe abrogare anche il reato di rafforzamento del proposito suicidario. Se è infatti legittimo aiutare materialmente qualcuno a togliersi la vita, non si comprende perché non dovrebbe essere ugualmente legittimo aiutare qualcuno a rafforzare il suo proposito di togliersi la vita. Rafforzare il proposito suicidario non significa necessariamente far violenza alla libertà della persona che aveva già in animo di morire. Pensate a Tizio che vuole andare in palestra, ma non si decide mai ad iscriversi per pigrizia. L’amico Caio lo motiva in tal senso, finché non si iscrive. Non è un aiuto ad attualizzare quella volontà che sarebbe rimasta solo potenziale? Quell’aiuto non si iscrive lungo la direttrice già tracciata della propria libertà? Non si inserisce in modo rispettoso nella libera scelta della persona? Non l’aiuta a realizzare ciò che aveva in animo di realizzare e quindi a passare dalle intenzioni ai fatti?

E anche riguardo all’istigazione al suicidio, c’è purtroppo qualche riflessione da articolare. L’art. 580 Cp condannava giustamente l’istigazione e l’aiuto al suicidio in qualsiasi sua forma perché non considerava un bene giuridico il suicidio in quanto tale e faceva scattare le manette quando un terzo agevolava in qualsiasi modo questo proposito letale. Dopo l’intervento della Consulta, non è più così. Il suicidio è diventato un bene giuridico e quindi è legittimo aiutare qualcuno a morire. Ma se è un bene giuridico, perché condannare chi ha fatto nascere liberamente in una terza persona l’idea di togliersi la vita? Dunque questo nuovo scenario, disegnato dalla Consulta, imporrebbe di cancellare anche il reato di istigazione al suicidio così descritto dall’art. 580 Cp: «Chiunque determina altri al suicidio». A patto che la determinazione sia avvenuta in modo libero e consapevole.

La decisione della Corte costituzionale e la legge 219/2017 sul consenso informato possono aprire ad ulteriori sviluppi, non inevitabili, ma assai probabili. Nella legge 219 il dare la morte è considerato una terapia, quindi un bene giuridico. Lo è anche la morte inflitta su persone non capaci giuridicamente (minori ed incapaci), posto che sia decisa dai rispettivi rappresentanti legali. Il passaggio non è di poco conto: infatti diviene legittimo uccidere anche senza il consenso del diretto interessato. Siamo giunti alla morte su persona non consenziente. Era già accaduto con Eluana Englaro, dove i giudici avevano giudicato la sua soppressione come confacente al suo “best interest”, ossia al suo miglior interesse inteso in senso oggettivo, dato che Eluana non poteva esprimere il suo parere. Ma se si può uccidere anche senza il consenso di una persona, vuol dire che a tal fine il consenso di suo è irrilevante e dunque diventerà legittimo uccidere anche la persona dissenziente, ossia la persona capace di intendere e volere e che non vuole essere uccisa.

Ne abbiamo prova se facciamo riferimento per esempio ai casi di Charlie Gard e Alfie Evans, bambini uccisi contro il volere dei genitori. Se è legittimo uccidere anche contro la volontà di chi esprime per terzi un consenso valido, ciò significa che il consenso è irrilevante e dunque perché non potrebbe essere ugualmente legittimo uccidere anche contro la volontà della persona stessa che esprime un consenso valido?

Ecco allora che andiamo a descrivere per tappe il percorso pro eutanasia che si è andato a configurare nel nostro ordinamento. S’iniziò – ed è qui la svolta principale, la crepa che sta facendo crollare tutta la diga – con ampia giurisprudenza che affermava, seppur implicitamente, che morire era un diritto laddove si fosse permesso il rifiuto di tutte le cure, anche quelle salvavita. Ma, se morire è un diritto, può essere richiesto anche al medico di uccidere il paziente con il suo consenso (vedi legge 219). Se morire è un diritto perché negarlo anche ai minori e disabili mentali (vedi sempre legge 219)? Se morire è un diritto, deve essere tutelato in tutte le sue forme, quindi anche tramite il suicidio assistito (vedi sentenza della Consulta). Se morire è un diritto, dunque un bene giuridico, determinare una persona a scegliere liberamente la morte o rinforzare l’altrui libero proposito di morire non potrà più essere considerato reato (abrogazione di tutto l’art. 580 Cp). Se morire è un bene e lo Stato sa cosa è meglio per te anche in tema di salute, non si può escludere che in futuro la morte sia imposta anche su persona dissenziente. Ecco descritta la parabola eutanasica dal suo inizio alla sua fine.

 



LA SENTENZA

Suicidio, la Consulta apre all’obiezione di coscienza. Che non reggerà

La Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza sull’incostituzionalità di parte dell’articolo 580 del Codice penale. A determinate condizioni, l’aiuto al suicidio non è più penalmente perseguibile. Eppure la Consulta ha riconosciuto l’obiezione di coscienza a favore dei medici (ma non della struttura ospedaliera), che però è destinata a essere spazzata via, causando l’eutanasia anche della libertà dei medici.

L’INTERVISTA

«Vi spiego come si curano le vite fragili come Vincent»

16_07_2019 Ermes Dovico

«La morte per disidratazione e denutrizione imposta a Vincent Lambert è segno di un abbandono e disprezzo del valore della vita». «Una volta una mamma mi ha detto: “La mia Maria è grave, però per me è come se l’avessi partorita un’altra volta”». Intervista al dottor Giovanni Battista Guizzetti, che al Don Orione di Bergamo si prende cura di 24 pazienti con deficit di coscienza. E testimonia l’importanza per queste persone della relazione con i loro cari, fonte di una ricchezza nascosta.