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MEDIO ORIENTE

Israele è in un vicolo cieco

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Se annientare Hamas è un obiettivo legittimo, non tutti i mezzi per ottenerlo lo sono. E l'azione del governo Netanyahu solleva grossi problemi politico-strategici e morali. 
- Attacco israeliano alla parrocchia cattolica di Gaza

Editoriali 16_12_2023 English Español

Quando il presidente americano Joe Biden ha detto nei giorni scorsi al premier israeliano Benjamin Netanyahu che Israele sta perdendo il consenso internazionale, ha implicitamente sollevato due questioni che accompagnano la dura offensiva israeliana su Gaza: una politico-strategica, l’altra etica.

Che dopo il feroce attacco terroristico del 7 ottobre, Israele non possa puntare a meno della eliminazione di Hamas dai territori palestinesi è scontato: qualsiasi altro obiettivo sarebbe una sconfitta. Ma più i bombardamenti e gli attacchi da terra vanno avanti – con il loro carico di morti, distruzione e odio -, più è legittimo chiedersi quale sia il vero obiettivo di Netanyahu, che idee abbia per il dopoguerra, se quello che sta facendo sia adeguato all’obiettivo e anche sia lecito. Eliminare Hamas può infatti significare diverse cose.

Quello che appare attualmente è che per il premier israeliano l’annientamento di Hamas va inteso nel senso dell’eliminazione fisica di tutti i combattenti, non essendo stata mai neanche ventilata un’opzione anche politica (tipo un trasferimento dei miliziani superstiti in un altro Paese “amico”). Finora, a quanto riportano le fonti dello stesso esercito israeliano dovrebbero essere stati uccisi circa 6mila combattenti islamisti su un totale di circa 30mila; e per ottenere questo risultato sono stati uccisi anche più di 12mila civili, 1 milione e 900 mila palestinesi sono sfollati (l’85% della popolazione, fonte Onu) e ovunque ci sono abitazioni distrutte. Certo, è giusto tenere conto del fatto che i terroristi di Hamas usano i civili come scudo, ma ciò non toglie la gravità del bilancio. Ed è facile intuire i costi umani – e non solo - di questa strategia, ammesso che sia perseguibile fino alla fine. Perché oltre alle inevitabili pressioni internazionali e alle tensioni interne, il governo Netanyahu deve fare i conti anche con immancabili incidenti come quello di ieri in cui l’esercito israeliano ha ucciso per errore tre giovani ostaggi ebrei in mano ad Hamas, scambiati per «una minaccia». Le ripercussioni interne di un fatto del genere sono facilmente immaginabili.

Ma anche ammettendo che l’esercito israeliano riesca infine a far sparire i miliziani di Hamas dalla Striscia di Gaza al termine di una lunga guerra, si potrebbe dire che finirebbe Hamas? Israele deve considerare anche il moltiplicarsi dell’odio, in intensità e in diffusione, che una guerra come questa sta già provocando: il consenso ad Hamas è in crescita anche in Cisgiordania e più in generale l’odio verso Israele cresce anche nei vicini Paesi arabi, condizionando il processo di normalizzazione dei rapporti che per la sicurezza di Israele è vitale tanto quanto la soluzione del problema palestinese. L’eliminazione fisica dei combattenti di Hamas a Gaza potrebbe perciò rivelarsi nel medio-lungo termine una vittoria di Pirro.

Del resto l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha distrutto il mito dell’invincibilità di Israele e un isolamento sul piano internazionale potrebbe suggerire a qualche Paese nemico di approfittarne.

A questo si aggiungono le incertezze sul futuro. Ammesso che il governo Netanyahu vinca la guerra a suo modo, quale sarebbe la soluzione per Gaza e più in generale per i Territori palestinesi? Il premier israeliano nei giorni scorsi ha detto chiaramente no alla consegna di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese, giudicata non diversa da Hamas nei suoi obiettivi; né accetterebbe una forza internazionale sotto l’egida dell’ONU; né ancora intende governarla direttamente, a parte la creazione di una fascia di sicurezza. Nei giorni scorsi abbiamo accennato alle possibili mediazioni future, ma tutto è ancora ipotetico e gli scenari futuri tutti da disegnare, compreso il destino dei 2 milioni e mezzo di civili di Gaza già oggi allo stremo.
Il problema è che - tra offensiva a Gaza, mano libera ai coloni in Cisgiordania e dichiarazioni di fuoco - Netanyahu dà l’impressione di avercela con tutti i palestinesi e non solo con Hamas e terroristi vari.

Come può il premier israeliano pensare di guadagnare un qualche consenso internazionale senza un obiettivo chiaro per il futuro che contempli insieme alla sicurezza di Israele anche una possibile soluzione per la questione palestinese? Anche chi difende il diritto di Israele ad esistere in sicurezza, in questo modo fa fatica a sostenere le decisioni del governo israeliano.

A questo poi si aggiunge un problema etico importante. Il diritto-dovere alla legittima difesa, in questo caso esercitato da Israele, ha comunque dei limiti di proporzionalità e di rispetto del diritto umanitario. Non è un buco nero in cui tutto diventa lecito. L’uso della forza è legittimo fin quando non diventa violenza gratuita e vendetta cieca. È ovviamente difficile tradurre i princìpi sul campo di battaglia, la situazione non è mai bianco e nero, però quello che vediamo ci dice che il limite del lecito è già stato varcato da tempo. E questo è sicuramente un fattore che contribuisce non poco a far perdere il consenso internazionale per Israele.

Il che non deve rallegrare, perché tale situazione favorisce a livello internazionale quanti vorrebbero cancellare la presenza di Israele, che invece – è giusto ribadirlo – ha tutto il diritto all’esistenza; favorisce il fondamentalismo islamico che, come abbiamo visto in questi due mesi, ha guadagnato molti fiancheggiatori anche in Occidente, soprattutto tra le forze di sinistra, e nessuno sembra accorgersi di questa grave minaccia; accresce l’instabilità e la conflittualità in Medio Oriente.

Ce n'è abbastanza per augurarsi che Israele ripensi alla sua strategia.

  



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