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fine vita alla consulta

«Io, disabile, chiedo ai Giudici di riconoscere il mio diritto a vivere»

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La Consulta si pronuncerà sulla costituzionalità dei presidi salvavita nel suicidio assistito. Da una parte il radicale Cappato, ma dall'altra per la prima volta un gruppo di disabili che chiede il rispetto del dettato costituzionale e rivendicano il loro diritto a vivere. La Bussola ha intervistato una di loro: «Il nostro miglior interesse non è morire».

Vita e bioetica 22_03_2025

Rapida sintesi del tema “suicidio assistito”. La Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019 (qui un approfondimento) ha legittimato l’accesso al suicidio assistito nel rispetto dei seguenti criteri: libero consenso, patologia irreversibile e fonte di dolori insopportabili, esistenza di presidi medici salvavita (su questo criterio la Consulta tornò a pronunciarsi con la sentenza n. 135/2024 che avevamo esaminato a suo tempo), verifica dell’esistenza di questi criteri da parte di una struttura pubblica e di un comitato etico.

Il criterio relativo ai trattamenti salvavita è stato oggetto di critica da parte del Tribunale di Milano, il quale sta valutando la responsabilità del radicale Marco Cappato per aver accompagnato in Svizzera due malati, Elena e Romano. Nel procedimento il Tribunale ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in merito al criterio attinente ai presidi salvavita, sia perché comprimerebbe eccessivamente la libertà del singolo paziente di voler morire, sia perché discriminatorio verso chi desidera la morte ma non è tenuto in vita da nessun trattamento.

La Consulta si pronuncerà il prossimo 26 marzo. Interverranno in giudizio, assistiti dagli avvocati Mario Esposito e Carmelo Leotta, quattro persone disabili, affette da patologie irreversibili, che invece chiederanno ai giudici di mantenere il requisito sopra indicato. Sarebbe la prima volta che alcuni malati chiedono alla Corte di intervenire non per sostenere un presunto diritto a morire, bensì per rivendicare un diritto a vivere.

Nel comunicato stampa pubblicato dai due avvocati possiamo leggere che «l'accoglimento della questione di legittimità comporterebbe […] un affievolimento della tutela del loro diritto alla vita che resterebbe unicamente affidata alla conservazione della loro volontà di vivere, a prescindere da un giudizio oggettivo di gravità delle loro condizioni, insito nella necessità del trattamento di sostegno vitale. Parimenti risulterebbe compromesso il loro diritto alla dignità personale perché, ove la loro vita diventasse per loro disponibile, ciò significherebbe che l’ordinamento italiano la riterrebbe un bene meritevole di una tutela ridotta rispetto alla vita delle persone sane, le quali della vita non possono disporre. Infatti, l’indisponibilità di un bene è indice del valore che l’ordinamento riconosce a quel bene».

Insomma, per paradosso, permettere ad alcuni di togliersi la vita e non ad altri comporta di necessità che i primi siano trattati da persone di serie B, dato che sono titolari di una vita disponibile, rispetto ai secondi la cui vita vale di più perché indisponibile.

Una delle quattro persone che interverranno in giudizio è la palermitana Maria Letizia Russo, 61 anni, coniugata, madre di tre figli. Già avvocato, oggi è dirigente scolastico. L’avvocato Russo è affetta da 20 anni da Atassia di Friedrich.

Avvocato, la prima domanda è obbligatoria: cosa è l’Atassia di Friedrich?
È una malattia genetica rara, degenerativa e inguaribile che colpisce il cervelletto. Progressivamente vengono meno tutte le funzioni che dipendono dal cervelletto: equilibrio, deambulazione, articolazione del linguaggio, coordinazione, respirazione, deglutizione, etc. Nel corso del tempo, sono passata dall’ausilio di un bastone, per camminare, quindi ad un deambulatore, e da qualche anno sono in carrozzella. Negli anni, le frequenti cadute mi hanno provocato la frattura di entrambi i menischi, due volte la frattura del setto nasale, la frattura di un braccio, della testa ed innumerevoli ecchimosi in tutte le parti del corpo. Sono stata anche sottoposta ad un intervento alla schiena, poiché le ernie che già avevo, a causa della errata postura dovuta all’incedere col deambulatore, avevano compresso a tal punto i nervi da paralizzarmi gli arti inferiori. Inoltre, anche le spalle sono compromesse, a causa dello sforzo costante che sopportano, per l’appoggio dell’intero corpo. Dormo praticamente seduta e faccio periodiche infiltrazioni alle spalle ed alla schiena per contrastare il dolore. Ma, detto ciò, preferisco guardare, apprezzare e ringraziare Nostro Signore per tutto ciò che ho. Ho avuto ed ho tuttora una vita molto intensa: sport, teatro, studio. Ho una famiglia, ho un lavoro. Insomma, tanta roba. E, se il Signore mi darà la forza, mi piacerebbe continuare questa splendida avventura che è la vita.

Perché avete deciso di intervenire in giudizio?
Può apparire retorico, ma voglio che venga sentita anche la mia voce e quella dei tanti malati, come me, ai quali di fronte ad un grido di sofferenza, anziché rispondere con un abbraccio di solidarietà, con il dovuto conforto o la necessaria assistenza viene detto che il nostro miglior interesse è morire. Siamo persone che amiamo la vita e che riconosciamo una dignità infinita ad ogni essere umano, che non può e non deve essere ridotto ad una somma di abilità.

Cosa chiede alla Consulta?
Anzitutto che io venga riconosciuta portatrice di un interesse qualificato ed ammessa a spiegare le mie ragioni nel giudizio. Quindi che venga dichiarata l’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Milano.

Ecco, ci spieghi meglio. Nel comunicato stampa dei vostri legali si legge che, se fosse eliminato il requisito della presenza di un trattamento di sostegno vitale, il vostro diritto alla dignità personale sarebbe compromesso. Per quale motivo?
Perché ogni nostro “sfogo” o “lamento” potrebbe essere preso sul serio, legittimandoci a farla finita anche con l’aiuto di chi ci dovrebbe aiutare o, peggio ancora, spingendo coloro che sentono di essere un peso per le famiglie a chiedere che venga messa fine alla sua vita. È vero che nessuno ci obbligherebbe a suicidarci, ma quando la sofferenza diventa forte, quello che serve alla persona sofferente non è essere libera di fare quello che vuole, ma essere aiutata a superare il dolore.

Secondo Lei i giudici cosa decideranno?
Francamente non lo so. L’augurio è che si attengano al dettato costituzionale, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, primo fra tutti quello alla vita, ed al contempo pari dignità agli uomini, indipendentemente dalla loro condizione. L’augurio è soprattutto che la Corte abbia consapevolezza che per noi partecipare a questo processo vuol dire esserci, esistere, dire che ci siamo e valiamo come gli altri.

C’è chi dice che i giudici e le leggi siano più impegnati a far morire le persone, soprattutto quando sono disabili, più che ad aiutarle a farle vivere e a curarle. È d’accordo?
Purtroppo c’è un’ampia fascia della popolazione che non apprezza adeguatamente la vita, che ha paura della malattia e quindi che, a fronte di una inabilità, ritiene la vita “non degna di essere vissuta”. Ma la dignità non è solo un diritto, è anzitutto un attributo della persona, prevista dalla Costituzione al solo scopo di chiarire che non è possibile distinguere le persone in “più degne” e “meno degne”.

Se proprio dobbiamo fare riferimento alla dignità, non possiamo che concordare con San Giovanni Paolo II il quale ha affermato che «la nostra dignità umana ci viene da Dio nostro creatore, a cui immagine siamo stati creati. Nessuna privazione o sofferenza potrà mai rimuovere questa dignità, perché noi siamo sempre preziosi agli occhi del Signore». Quindi, nessuno Stato, ma neanche noi stessi, può privarci di questa dignità. E poi, non illudiamoci, se nego la dignità a me stessa, sono pronta a negarla anche agli altri.

Io ogni caso, il fatto che la dignità sia eguale per tutti non ci deriva dalla fede, ma lo comprendiamo con la ragione e anche la Corte costituzionale lo ha ribadito con la sentenza n. 135/2024. Ho molta fiducia nella Corte costituzionale che è anche il mio giudice dei diritti fondamentali e non solo quello di chi chiede più libertà per darsi la morte.