In piazza per l'antirazzismo, ma non per il Corpus Domini
In piazza contro il razzismo, sì. Ma le processioni del Corpus Domini sono ancora proibite. Del doppiopesismo del governo è responsabile la Cei, che non ha preteso il ripristino della vita liturgica, restando ferma alla situazione epidemiologica di un mese fa. Mentre tutti rivendicano spazi e diritti e Forza Italia interroga il ministro, una Chiesa addomesticata aspetta le concessioni governative. I vescovi hanno ancora a cuore il comando della testimonianza pubblica della fede?
A Prato opteranno per una più “comoda” Messa sul sagrato. Ma in quasi tutte le altre diocesi italiane - salve rare eccezioni o ripensamenti ai vertici - quest’anno mancherà un momento fondamentale della vita liturgica cristiana: la tradizionale processione del Corpus Domini. Colpa, ovviamente, delle recenti disposizioni governative che proibiscono le manifestazioni pubbliche e del protocollo firmato dalla Cei e dal Governo che, mentre ripristina le Messe, ha continuato a chiudere le porte a tutte le altre forme di pietà popolare che rappresentano un momento centrale della vita cristiana.
Niente baldacchini e ostensori solennemente portati per strade e vicoli, il giovedì sera (giorno in cui cade liturgicamente la Solennità del Corpo di Cristo) e nemmeno domenica, quando solitamente la processione veniva spostata per permettere un afflusso maggiore di fedeli. Chi vorrà fare qualcosa dovrà organizzarsi internamente nelle aree private delle parrocchie e comunque sempre con numeri ridottissimi di fedeli. È l'era della fede in forma privata, nel recinto degli orticelli.
Così a farne le spese sono ancora una volta i sentimenti cattolici anche perché a nessuno sfugge che, mentre si stanno riempiendo le piazze di manifestanti senza mascherina né sanzioni, come nel weekend appena trascorso contro il razzismo, a milioni di cattolici, giovedì e domenica, sarà precluso scendere in strada con il Re dei Re cantando T’adoriam Ostia divina. Cortei antirazzismo sì, anzi ben accetti, processioni col Santissimo no, e neanche tanto rimpianti dato che non risulta neppure che i vescovi si siano adoperati per chiedere con insistenza un ripristino di un minimo di vita spirituale per il popolo.
Del resto, non c’è da stupirsi: durante il lockdown sono stati diversi i sacerdoti multati per aver portato Gesù Sacramento in processione solitaria, come nel deprecabile caso di Rocca Imperiale, in cui il parroco, pensando di fare cosa gradita alla sua gente, ha attraversato le vie principali del paese con l’ostensorio per benedire. Mal gliene incolse: è stato raggiunto da una pattuglia dei carabinieri che prima gli ha intimato di tornare in chiesa, poi, al suo rientro, gli ha comminato la salatissima sanzione. Il tutto senza la benché minima indignazione della gerarchia ecclesiastica, che per poco non infieriva sul povero prete.
Normalissimo, dunque, che anche in questa fase di libertà vigilata il pensiero delle processioni sia stato accantonato come non urgente. A rimetterci il 13 e il 31 maggio scorsi, a seconda delle consuetudini diocesane, sono state le processioni con la statua della Madonna per la festa della Madonna di Fatima e per la chiusura del mese mariano, questa settimana a restare in chiesa sarà il Santissimo che non potrà contare sul dispiegamento colorato e festoso di strade addobbate a festa, con i petali di rosa a fare da apripista e i drappi appesi ai davanzali. Tutto fermo.
Le disposizioni governative si possono infrangere se la causa è il razzismo, come abbiamo visto in queste ore per le manifestazioni anti Trump, e l’assembramento non costituisce problema se ad ascoltare il presidente Mattarella il 2 giugno a Codogno è una piazza piena e festosa. E le mascherine possono restare a casa se si tratta di celebrare il 25 aprile in piazza con l’Anpi. Insomma, per tutto ciò che rappresenta la nuova religione civile dei diritti, dell’antirazzismo e dei valori laicisti, gli strappi alla regola si possono fare e – come recitava una circolare del Viminale – le soluzioni si possono trovare “in un qualche modo”. Ma se si tratta di rendere onore a Cristo e testimoniare anche in pubblico la propria fede, ecco che scatta la tagliola dell’assembramento.
Il fatto è che non si può neppure invocare chissà quale governo anticristiano persecutore, perché qui non c'è neanche la scusa di un’imposizione dall’alto. In questi giorni i vescovi non hanno certo puntato i piedi per permettere al baldacchino di poter uscire. I rapporti con il Governo vanno avanti regolarmente, ci viene detto, in attesa che si possa arrivare a nuove concessioni. Questo è il senso delle parole che ci sono state riferite da chi frequenta gli uffici della Conferenza Episcopale.
Insomma, adelante Pedro, ma senza fretta. I vescovi sembrano aspettare che la possibilità di tornare alla normalità sia una gentile concessione dell’esecutivo Conte, delegano. Ma se non sono per primi i cristiani a pretendere di riattivare ciò che gli è dovuto, e una processione lo è, nessuno Stato si ricorderà di farlo.
Mentre tutti vanno avanti a reclamare diritti, dai ristoratori ai gestori di cinema e teatri, la Chiesa italiana è rimasta a maggio, quando le è stato concesso gentilmente di poter tornare a Messa, bardati come palombari, ma in una situazione epidemiologica diversa e che oggi non c'è già più. Oggi ci sono province a contagi zero e regioni senza decessi, per quale motivo allora questi cittadini dovrebbero privarsi di una manifestazione all’aperto che già nel suo svolgimento può garantire il distanziamento sociale?
È il ragionamento che sta alla base di una prossima interpellanza urgente del senatore Enrico Aimi di Forza Italia che chiederà al Viminale di poter consentire le processioni religiose. «Si chiede di sapere - si chiede nel testo - quali iniziative di competenza si intendano assumere, anche in accordo con la CEI, al fine di ripristinare con urgenza le manifestazioni di carattere religioso come le processioni, che sono parte integrante della vita di fede di tutti i cattolici». Questo per quanto riguarda lo Stato.
Ma per la Chiesa qualche domanda è urgente. Non è in ballo solo la libertà di culto, ma qualche cosa di ancora più profondo.
Come sottolineava Stefano Fontana su queste colonne “la libertà della Chiesa si fonda sulla sua istituzione divina. Cristo l’ha costituita, le ha inviato lo Spirito per sostenerla e guidarla, le ha insegnato cose proprie, l’ha resa amministratrice di grazia, l’ha ordinata gerarchicamente, le ha dato una missione, le ha detto come adorarlo nella liturgia, le ha insegnato come pregarlo, l’ha fatta partecipe di una “maternità soprannaturale”, le ha detto di rispettare le autorità terrene che si reggono sul diritto naturale che ha Dio come autore ma di obbedire a Dio prima che agli uomini”. Ma se questi comandi e insegnamenti vengono meno perché subordinati a un potere dello Stato che li regolamenta, che spazio c’è alla fine per la fede che dà forma a tutto questo? In poche parole: per che cosa vale la pena lottare se per una processione si deve aspettare la gentile concessione di un potere cui non spetta il diritto di tenere in ostaggio per così tanto tempo la libertà? Qual è la forza, la testimonianza, il martirio utile per questa battaglia?
La solennità del Corpus Domini nacque nel ‘200 per celebrare la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, contrapponendosi alle eresie di chi riteneva la Presenza solo simbolica. Ma se questa Presenza non viene più difesa né amata, anche litigare con un burocrate degli Interni in rappresentanza di un governo anticristiano diventa un’impresa titanica. Sconsigliabile dal punto di vista delle buone relazioni di una Chiesa che si sta lentamente e sempre di più addomesticando ad un potere mondano.