Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
PARIGI 2024

Il Sudan alle Olimpiadi, impunito, nonostante la guerra e la carestia

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Altro che tregua olimpica. Nel Sudan continua una delle guerre civili più feroci del mondo. Mentre la squadra olimpica del paese partecipa a Parigi 2024, come se nulla fosse. E gli organizzatori suonano l'inno del Sudan anche quando vince il Sud Sudan.

Esteri 30_07_2024
Guerra civile in Sudan, miliziani delle RSF

L’approssimazione con cui sono state allestite le Olimpiadi 2024 di Parigi lascia senza parole. La bandiera olimpionica a testa in giù, issata con i tre cerchi in basso e i due sopra è niente al confronto dell’incidente occorso subito dopo, non appena le gare sono iniziate. Il 28 luglio la squadra di pallacanestro del Sudan del Sud, al suo storico esordio, ha gareggiato con il Porto Rico e ha vinto. Mano sul cuore, occhi chiusi, emozionatissimi, i giocatori sud sudanesi sul palco aspettavano che il loro inno nazionale risuonasse nell’aria. Ma, incredibilmente, l’organizzazione invece ha fatto suonare l’inno nazionale del Sudan, il paese dal quale il Sudan del Sud è riuscito a separarsi nel 2011, diventando indipendente, dopo decenni di sofferenze indicibili subite dalla popolazione prevalentemente cristiana, vittima della classe dirigente sudanese, musulmana e di origine araba.

La secessione in verità non ha portato fortuna né al Sudan né al nuovo, giovane Stato. Nel Sudan del Sud due anni dopo l’indipendenza le due etnie principali, i Dinka e i Nuer, hanno scatenato una guerra al solo scopo di assicurarsi quante più cariche politiche e amministrative  e quindi un maggiore controllo sul paese. Ancora lo scontro non si è risolto del tutto, le difficoltà non sono state appianate.

In Sudan è successo di peggio. Dopo anni difficili, segnati da un tremendo conflitto etnico nell’ovest del paese, nella provincia del Darfur, da un durissimo scontro al vertice dello Stato e da due colpi di stato, dall’aprile 2023 due generali combattono per assicurarsi il potere. Il generale Abdel Fattah al-Burhan è il comandante delle forze armate e il presidente del Consiglio superiore che ha assunto il potere dopo il colpo di stato militare del 2021, di fatto è il capo dello Stato. Ai suoi ordini ha 120mila militari, forse di più. Il suo avversario è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto come Hemedti, che fino all’anno scorso era il suo vice. È il leader delle Forze di supporto rapido (FSR), un organismo paramilitare composto da circa 100mila combattenti.

Le regioni in cui si combatte e dove quindi le infrastrutture subiscono gravi danni e i servizi essenziali vengono a mancare sono sempre più estese. I contendenti sono del tutto incuranti delle conseguenze della loro guerra sulla popolazione e anzi usano la fame come arma di guerra, impedendo l’arrivo degli aiuti internazionali nelle aree controllate dagli avversari. Su 49 milioni di abitanti, 25 milioni hanno bisogno di aiuto per sopravvivere. Quelli in condizioni più difficili, disperate, sono gli oltre dieci milioni fuggiti per sottrarsi ai combattimenti. Circa due milioni hanno cercato scampo nei paesi vicini. Tutti gli altri, privi di mezzi di sussistenza e di soccorsi adeguati, oltre tutto sono costretti a spostarsi più e più volte mano a mano che il conflitto raggiunge i territori in cui avevano sperato di trovare la salvezza. Nel Darfur, in particolare, il riaccendersi della conflittualità etnica provoca stragi che ricordano i livelli di violenza, di ferocia, che fecero definire quello del Darfur un genocidio. L’emergenza umanitaria cresciuta di giorno in giorno ormai ha assunto proporzioni apocalittiche. Quel che gli abitanti del Sudan patiscono è stato definito «uno dei peggiori incubi umanitari della storia recente». La guerra sta per scatenare la più grande crisi alimentare del mondo, già cinque milioni di persone mostrano segni di grave denutrizione.  

È stato quindi surreale, la sera dell’inaugurazione dei giochi olimpici, veder comparire sulla Senna una barca sulla quale sventolava la bandiera del Sudan, sentirne pronunciare il nome e vedere quattro atleti, tre uomini e una donna, salutare la folla. Intanto, proprio poche ore prima, in Sudan un ennesimo attacco alla città di al-Fashir provocava decine di morti tra la popolazione civile, un bilancio in crescita perché un drone delle FSR ha colpito un ospedale che quindi non è in grado di accogliere i feriti, molti dei quali gravi.    

È surreale che un governo pensi di partecipare alle Olimpiadi mentre il suo paese è in condizioni simili e mentre continua a respingere la richiesta del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di aprire dei posti di frontiera per lasciar entrare nel paese i convogli degli aiuti umanitari. Per bocca del ministro dell’agricoltura Abubakr –al-Bushra il 25 luglio ha sprezzantemente negato che ci sia carestia e che metà della popolazione abbia bisogno urgente di aiuto. 

Che la partecipazione del Sudan sia stata accettata solleva peraltro anche degli interrogativi. Dal 1992 il Comitato Olimpico Internazionale chiede ufficialmente alla comunità internazionale di osservare la Tregua Olimpica, ovvero la sospensione dei conflitti, e nell’autunno che precede l’inizio delle Olimpiadi estive l’Onu adotta sempre una risoluzione che ne chiede il rispetto a partire dai sette giorni che precedono l’inizio dei giochi. Quest’anno dalle Olimpiadi sono esclusi Russia e Bielorussia, gli atleti di quei paesi possono partecipare individualmente, senza bandiere e inni nazionali. Dovrebbero esserlo, con altrettanto fondamento, paesi come il Sudan, ma anche il Myanmar e l’Etiopia, dove il governo ha la responsabilità di una guerra in corso, anche se non contro un altro stato.

Se non che nel caso del Sudan, conoscendone i leader, è molto probabile che il governo avrebbe impedito ai suoi atleti di andare a Parigi individualmente.