Il sogno di Amadou, tante domande senza risposta
Il suicidio di Amadou Jawo, immigrato irregolare dal Gambia in via di rimpatrio, apre tante domande, soprattutto sui motivi che l'hanno spinto a partire per l'Italia: chi o che cosa lo ha illuso che valesse la pena spendere tanto denaro, correre dei rischi, affidarsi a una organizzazione criminale di trafficanti?
Gli emigranti non muoiono solo nel Mediterraneo o nel Sahara. Amadou Jawo, il giovane di 22 anni originario del Gambia che si è suicidato il 15 ottobre a Castellaneta Marina, era in Italia da due anni. Dal suo arrivo aveva vissuto prima in una struttura d’accoglienza e poi nell’abitazione che condivideva con dei connazionali e dove si è tolto la vita. Come la maggior parte degli immigrati irregolari, si era dichiarato profugo, aspirava allo status giuridico di rifugiato, ma la sua richiesta di asilo il 7 dicembre 2016 era stata respinta. Però aveva fatto ricorso, approfittando del gratuito patrocinio offerto dallo stato italiano. Il suo caso è stato riesaminato il 12 ottobre e il giudice si è riservato la decisione.
Questi i fatti certi. Poi iniziano le incertezze. Secondo il Ministero dell’Interno il suo permesso di soggiorno sarebbe scaduto solo il 19 marzo 2019. L’associazione Babele, che si occupa dell’assistenza ai richiedenti asilo nell’area tarantina e che ha dato notizia del suicidio, sostiene invece che Amadou ha scelto di uccidersi perché “aveva avuto un diniego. Qui in Italia, per legge, non poteva più starci”.
In realtà i richiedenti asilo hanno diritto di soggiornare in Italia fino alla decisione definitiva in merito alla loro richiesta, inseriti nel frattempo nei Cara, Centri di accoglienza per richiedenti asilo, o nei Cas, Centri di accoglienza straordinari. In attesa di sapere se avrebbe ottenuto lo status di rifugiato o almeno protezione sussidiaria, Amaodu usufruiva del sistema di protezione italiano.
I suoi compagni attribuiscono il suo gesto a uno stato depressivo. Secondo loro, Amadou aveva manifestato l’intenzione di tornare in Gambia approfittando dei rimpatri assistiti. Enzo Pilò, portavoce dell’associazione Babele, ritiene piuttosto che temesse il ritorno a casa: “Dentro di sé sapeva già di dover tornare nel suo paese – ha detto ai giornalisti – e da loro chi torna perché respinto non viene giudicato bene. Viene ritenuto un fallito, uno che non è riuscito a realizzarsi. Ecco, questo probabilmente gli pesava molto e a quel punto ha compiuto il gesto estremo: farla finita”.
Chissà chi ha ragione. Certo un emigrante che ritorna a mani vuote non viene quasi mai accolto bene. La sua famiglia contava sulle rimesse che avrebbe spedito non appena avesse trovato un lavoro: risorse utili ad affrontare emergenze e momenti di crisi, a vivere meglio, in condizioni più confortevoli, salubri e sicure, forse anche ad avviare una attività, svilupparne una già esistente, crescendo in considerazione e rispetto nella comunità d’appartenenza. A volte inoltre al costoso viaggio clandestino contribuiscono diversi famigliari e tutti si aspettano un tornaconto. Consapevole del problema, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni prevede programmi di reinserimento economico e sociale per gli emigranti bloccati in Libia o in altri stati del Nord Africa di cui organizza il rimpatrio e alcuni governi europei dotano di un piccolo capitale gli emigranti che accettano il rimpatrio, appunto perché non si presentino a casa senza mezzi. La Germania, ad esempio, offre fino a 1.000 euro a persona, 1.200 a chi accetta di lasciare il paese prima di sapere se la sua richiesta di asilo viene accettata, la Svezia ne concede 3.050, l’Italia 400.
Ma forse invece Amadou sentiva nostalgia di casa, era disposto ad affrontare la delusione dei parenti, il disprezzo e lo scherno della sua comunità, le difficoltà di un incerto reinserimento pur di tornare, pur di non essere più solo. C’è da domandarsi in effetti in che considerazione sia tenuta oggi la famiglia in Europa dal momento che tutti sembrano pensare che l’ideale di un ragazzo sia vivere lontano dai parenti, con remote prospettive di formare una propria famiglia. Forse ad Amadou pesava di essere a migliaia di chilometri da casa, costretto a dipendere da estranei di cui probabilmente ancora stentava a capire la lingua e di sicuro i pensieri. Forse, inoltre, aveva incominciato a rendersi conto che, con o senza protezione internazionale, in Italia lui quasi certamente non aveva prospettive, che stava perdendo tempo, sprecando gli anni preziosi in cui una persona costruisce la propria vita: lavoro, affetti, relazioni sociali.
“Il sogno di Amadou era tornare in Africa. Realizziamo insieme il suo ultimo desiderio”. È l’appello dell’associazione Babele che ha avviato una raccolta di fondi per raccogliere circa 5.000 euro, necessari per trasportare la salma in Gambia e consegnarla ai famigliari, già informati del lutto che li ha colpiti.
Ma che sogno inseguiva Amadou quando ha deciso di partire per l’Italia? Come ha maturato il progetto di emigrare clandestinamente? Chi o che cosa lo ha illuso che valesse la pena spendere tanto denaro, correre dei rischi, affidarsi a una organizzazione criminale di trafficanti? Che cosa si aspettava di trovare? E soprattutto, come ha potuto pensare di ottenere protezione internazionale arrivando da un paese come il Gambia, che non era in guerra quando è partito (e anzi nel gennaio del 2017 si è poi liberato di una lunga dittatura costringendo all’esilio il presidente Yahya Jammeh)?
Sono domande ormai senza risposta. Servirebbe leggere i verbali dei suoi colloqui con la commissione territoriale che ha esaminato e respinto la sua richiesta di protezione internazionale.