Il Salvator Mundi di Bernini, nel mistero del Suo Volto
Verso la fine della sua esistenza, Bernini avvertì sempre di più la necessità di un confronto personale con il mistero divino. Da qui nacque il volto del Salvator Mundi, suo ultimo capolavoro e testamento spirituale. Gesù, avvolto in uno sfaccettato panneggio levigato, ha una precisa fisionomia e l’originalità della Sua figura ci dice tanto della Sua potenza salvifica.
Gian Lorenzo Bernini, Salvator Mundi, Roma - Basilica di S. Sebastiano fuori le Mura
“Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il Suo amore per gli uomini, Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la Sua misericordia” (Tt 3, 4-5).
All’approssimarsi della fine della sua esistenza, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), l’acclamato “grande regista del Barocco”, avvertì sempre più stringente la necessità di un confronto personale e sincero con il Mistero cui nell’ultimo periodo cercò di andare incontro non solo intensificando le pratiche devozionali e caritatevoli ma anche attraverso gli strumenti della sua professione. Gli diede, infine, un volto che è quello bellissimo del Salvator Mundi ora conservato in una nicchia della basilica romana di San Sebastiano fuori le Mura, sull’antica via Appia. Fu il suo ultimo capolavoro e il suo testamento spirituale.
A questa conclusione, e alla definitiva inserzione dell’opera nel catalogo dell’artista, si è arrivati in tempi relativamente recenti. Del meraviglioso busto ricavato dal marmo, infatti, non si aveva più notizia sin dalla fine del XVII secolo e allo scadere dello scorso millennio se ne seguivano ancora le tracce in quelle che sarebbero poi state riconosciute, quasi all’unanimità da parte degli studiosi competenti, delle copie. Fino al 2001, quando uno sguardo più vigile si soffermò sulla scultura romana, giudicandola troppo bella per la mano dell’artista minore cui era stata, fin lì, attribuita.
Il figlio Domenico nella biografia del padre aveva così scritto: “In età decrepita di ottant’anni volle (…) chiuder l’atto di sua fin’a quell’hora tanto ben condotta Professione, con rappresentare un’opera, che felice è quell’Huomo, che termina con essa i suoi giorni. Questa fù l’immagine del nostro Salvatore in mezza figura, ma più grande del naturale, colla man destra, alquanto sollevata, come in atto di benedire”.
Studi aggiornati ipotizzano che la creazione del Salvator Mundi - non destinato alla devozione personale dell’artista, come per lungo tempo si era creduto, e neppure concepito quale dono alla regina Cristina di Svezia, cara amica dello scultore - sia stata strettamente correlata alla volontà, rimasta incompiuta, di Innocenzo XI di trasformare il Palazzo del Laterano in ospizio per i poveri romani. La Basilica lateranense e il suo tradizionale legame con il Salvatore, avrebbe, dunque, guidato l’artista nell’esecuzione della scultura prescelta quale emblema di un luogo deputato alla carità.
Comunque sia andata, la monumentale effigie è bellissima perché frutto di un perfetto connubio tra la perfezione artistica e l’urgenza della fede di un uomo che, vissuto nel cuore pulsante della mondanità romana, sente, alla fine, il bisogno di meditare sulla verità ultima del suo destino: Cristo.
Gesù, avvolto in uno sfaccettato panneggio levigato, che suggerisce l’effetto della seta o del raso, ha una precisa fisionomia: gli zigomi ossuti, la fronte sfuggente e il naso allungato sono incorniciati da folti e lunghi capelli, mentre la mano destra benedicente, rivolta in direzione opposta rispetto al Suo sguardo, scartando la tradizionale ieraticità di questa iconografia, conferisce al simulacro un teatrale dinamismo.
E dice della potenza del Suo gesto, salvifico “non per opere giuste da noi compiute, ma per la Sua misericordia”.