Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Ora di dottrina / 108 – La trascrizione

Il peccato per passione – Il testo del video

Qual è il rapporto tra le passioni e la bontà o malizia morale? Come spiega san Tommaso, le passioni, se moderate dalla ragione, contribuiscono alla perfezione del bene morale dell’uomo. La passione disordinata, invece, aumenta la gravità dell’atto.

Catechismo 17_03_2024

Continuiamo la nostra riflessione, che abbiamo iniziato la scorsa volta, sulle passioni. Questa volta vediamo il legame tra le passioni e il peccato. Se ricordate, le passioni riguardano quello che abbiamo chiamato l’appetito sensibile e dunque quel desiderio, quella mozione che nasce nella parte più sensitiva dell’uomo, diversa da quella intellettiva: una differenza che, lo dobbiamo ricordare, è una distinzione, non è una divisione tra mondi del tutto indipendenti.

Oggi ho pensato di proporvi e commentare un testo della Summa Theologiæ, tratto dalla I-II, quæstio 24, dove san Tommaso tratta della “bontà e malizia delle passioni”. Vediamo un po’ velocemente i primi due articoli, mentre ci soffermeremo più a lungo sul terzo.

Dunque, nell’articolo 1, san Tommaso si domanda se nelle passioni ci possa essere la bontà o la malizia morale. E spiega: «Se le passioni dell’anima vengono considerate in sé stesse, cioè in quanto moti di un appetito non razionale, non si trova in esse la bontà o la malizia morale che dipendono dalla ragione. Se invece vengono considerate come soggette al comando della ragione e della volontà, allora in esse si riscontra il bene o il male morale. (…) Queste passioni vengono dette volontarie o perché comandate dalla volontà o perché da essa non ostacolate» (I-II, q. 24, a. 1).

Dunque, nell’art. 1 san Tommaso mette a tema il rapporto tra le passioni e la volontà, con riferimento all’appetito sensibile e all’appetito intellettivo. E ci dice: se io considero le passioni, che risiedono nell’appetito sensibile come abbiamo visto, come puri moti, movimenti della parte non razionale dell’uomo e mi fermo lì, diciamo, allora non posso parlare di bontà morale o malizia di una passione. Perché? Perché bontà e malizia si dicono in riferimento alla parte razionale, dunque all’intelletto e alla volontà dell’uomo. Se io sto passeggiando per strada e incontro un cinghiale femmina con i piccoli, avverto la paura. E questa paura che avverto non è buona o cattiva, è lì.

Che cosa fare invece con questa passione che pertiene alla parte intellettiva? Ci dice san Tommaso che, se le passioni le comanda la volontà o non sono ostacolate dalla volontà, è lì che entra la bontà o la malizia della passione. Dunque, in sostanza, il punto è che cosa la mia volontà vuol fare con queste passioni e qui ho il bene o il male di una passione, all’interno chiaramente dell’uomo nel suo insieme, in relazione con gli appetiti intellettivi, la volontà e l’intelligenza.

Nell’art. 2, san Tommaso richiama questo tema e si domanda se tutte le passioni siano moralmente cattive. Fa un rapido e interessante excursus storico, mostrando come all’epoca – e già precedentemente alla sua epoca – si dibattesse sulla posizione stoica e la posizione peripatetica: gli stoici da una parte e gli aristotelici, i peripatetici, dall’altra. Che cosa dicevano gli stoici? San Tommaso riassume dicendo che in sostanza, per gli stoici, le passioni sono cattive. Abbiamo un’eco di questa posizione anche in diversi padri del monachesimo: la passione come qualcosa di cattivo. Il che non è un errore, attenzione, bisogna solo capire che cosa volevano dire. In sostanza, san Tommaso ci dice che quando gli stoici parlano delle passioni non distinguono tra l’appetito sensibile e l’appetito intellettivo. E appunto, mancando questa distinzione, manca la possibilità di definire e di comprendere la passione come qualcosa di pre-razionale, pre-voluto e, dunque, diremmo noi, neutro, la cui malizia o bontà dipende poi da altro, come vedremo tra poco.

Invece, dall’altra parte, gli aristotelici chiamano passioni i moti dell’appetito sensitivo. E, dice san Tommaso, «le stimano buone [le passioni] quando sono regolate dalla ragione, e cattive quando non ne rispettano la regola» (I-II, q. 24, a. 2). E questa è anche la posizione di san Tommaso. La bontà o la malizia della passione dipende dal fatto che sia regolata dalla ragione o non sia regolata dalla ragione. In sostanza, è proprio la sua conformità all’ordine di ragione a rendere la passione buona, e la sua difformità all’ordine di ragione a renderla cattiva.

Adesso ci focalizziamo sull’art. 3, dove san Tommaso si domanda se la passione incida in qualche modo sulla bontà o sulla malizia dell’atto, cioè se una passione – che noi percepiamo in ogni nostro atto, perché in ogni nostro atto c’è una passione di mezzo – aumenta la bontà di un atto o la diminuisce. Questa è la grande domanda di questo articolo.

Allora san Tommaso, come da strutturazione solita dei suoi articoli della Summa, pone tre tesi che poi andrà a confutare. Lui dice: «Sembra che la passione diminuisca sempre la bontà di un atto morale» (I-II, q. 24, a. 3). Ci si chiede se l’essere presente di una passione diminuisca la bontà di un atto. Cioè, detto in altro modo: sembra che, se ci fosse la volontà pura, la sola volontà senza passione, l’atto sarebbe più buono, avrebbe una perfezione maggiore, rispetto invece a quell’atto compiuto con la volontà e la passione.

Allora, la prima tesi che sembrerebbe supportare questo concetto è quella che ci dice che «tutto ciò che intralcia il giudizio della ragione, dal quale dipende la bontà dell’atto morale, diminuisce per conseguenza la bontà di esso» (ibidem). Dunque, il giudizio della ragione e quindi l’atto volitivo “contaminati” dalla passione, sia pure buona e ordinata, è un atto meno buono rispetto a un atto “puro”, un atto purificato da ogni passione: questa è una prima tesi che, come vedremo poi, san Tommaso confuterà.

La seconda tesi: «Più l’atto umano assomiglia a Dio e più vale; infatti l’Apostolo [san Paolo; Ef 5,1] scrive “Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi”» (ibidem). Dunque, siccome né Dio né gli angeli hanno le passioni, perché non hanno un appetito sensibile, imitarli significa liberarsi da questa sfera, da questa dimensione: un’azione è tanto più buona quanto più si libera da questa dimensione. Altra tesi che, come vedremo, san Tommaso andrà a confutare.

Terza tesi: «Come il male morale così anche il bene si misura in rapporto alla ragione. Ora, il male morale viene diminuito dalla passione: infatti chi pecca per passione è meno colpevole di chi pecca per malizia. Quindi chi fa il bene senza passione compie un bene più grande di chi lo fa mosso dalla passione» (ibidem). San Tommaso dice: il male compiuto sotto una grande passione, come una grande paura, diminuisce la sua malizia rispetto a un male compiuto senza che io abbia paura (il che non vuol dire che non è più peccato, vuol dire che è diminuita la colpa). Analogamente, per il bene: il bene compiuto sotto passione diminuisce la bontà dell’atto, a differenza del bene compiuto senza passione.

In contrario, però, san Tommaso dice che le cose non stanno così. E adesso andiamo a vedere qual è il ragionamento che egli pone nel corpo del suo discorso, andando poi a smontare ognuna di queste tre tesi. È un tema veramente importante. Allora san Tommaso dice: «Se noi denominiamo “passione” tutti i moti dell’appetito sensitivo [cioè se noi prendiamo la posizione aristotelica, non quella stoica], allora vediamo che anche le passioni moderate dalla ragione contribuiscono alla perfezione del bene umano. Infatti il bene umano consiste radicalmente nella ragione, quindi tale bene sarà tanto più perfetto quanto più numerose sono le cose riguardanti l’uomo a cui esso si estende» (ibidem).

Cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Ci sta dicendo che il bene umano consiste radicalmente, nella sua radice, nella ragione (se io mi do una martellata sul dito e sento dolore, questo non è buono o cattivo, non è bene o male, perché siamo in una sfera pre-razionale), in quell’ordine di ragione di cui abbiamo già parlato. Ricordiamo che questa non è una visione razionalista della ragione: per usare il linguaggio di Benedetto XVI, potremmo parlare di una «ragione allargata», quella ragione che è illuminata dall’alto, che è aperta alla fede, illuminata dalla fede, quella ragione che non riguarda solo la dimensione teoretica, ma anche la ragion pratica. Dunque, vedete che questo senso è molto più ampio della ragione analitica, di una visione razionalista della ragione. Siccome il bene e male consistono in questo, nel vivere secondo ragione con questa accezione larga della ragione, san Tommaso dice: questo non vuol dire che allora il vivere secondo ragione significa togliere tutto quello che non è ragione, che non è prettamente attinente alla ragione, quindi l’appetito intellettivo. Al contrario, quanto più la ragione riesce a inglobare nella sua sfera le altre dimensioni, a estendere ad esse la sua influenza, tanto meglio è per l’uomo.

Prosegue san Tommaso: «Essendo quindi l’appetito sensitivo capace di essere sottoposto alla ragione, il fatto che le passioni stesse siano regolate dalla ragione contribuisce alla perfezione del bene morale umano. (…) Come, dunque, è cosa migliore che l’uomo, oltre a volere il bene, lo compia anche esternamente, così contribuisce alla perfezione del bene morale il muoversi non soltanto con la volontà ma anche con l’appetito sensitivo, secondo quanto dice il Salmo [83(84)]: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente”; intendendo per cuore l’appetito intellettivo e per carne quello sensitivo» (ibidem).

Affermazione densissima di significato. San Tommaso ci sta dicendo che la perfezione dell’uomo non è quella di essere senza passioni, ma ci dice che anche l’appetito sensitivo, la nostra sfera sensibile, sede delle passioni, contribuisce al bene morale dell’uomo, perché appartiene alla natura dell’uomo. E dunque noi siamo chiamati a realizzare il bene e a compiere il perfezionamento della nostra persona a gloria di Dio in che modo? Non tagliando la sfera delle passioni; non è in questo senso che si deve pensare l’apatia, cioè l’assenza di passione, ma nel purificare le passioni e nel portarle all’interno dell’ordine di ragione perché servano questo ordine di ragione. Facciamo un esempio semplice: se io devo consolare gli afflitti – opera di misericordia spirituale – la perfezione di questo atto sarà tanto maggiore quanto più l’elemento delle mie passioni sarà al servizio di questo atto che il mio appetito intellettivo desidera, compie, sceglie. Che vuol dire, in concreto, che tutta quella modulazione delle passioni, della sensibilità, quando rientra dentro un ordine, è buona ed è migliore del non averla. Nel caso di consolare gli afflitti, se la mia sensibilità segue l’ordine di ragione e dunque tutte le modulazioni della mia sensibilità risuonano per consolare l’afflitto questo è meglio, è più perfetto di un semplice atto di volontà che non si porta dietro, che non ingloba in sé la sfera dell’appetito sensitivo. In soldoni, è più perfetto consolare l’afflitto con una partecipazione emotiva ordinata piuttosto che come se fossi un palo secco, senza empatia, senza sensibilità.

Ora vediamo come san Tommaso risponde alle tre tesi di cui abbiamo parlato prima. La prima diceva che la passione intralcia il giudizio di ragione. San Tommaso dice: dipende. C’è la passione antecedente: la passione si muove prima del giudizio della ragione. È chiaro che può oscurare il giudizio della ragione, perché la passione va da una parte e finisce che si trascina dietro la ragione e impedisce alla ragione di valutare obiettivamente una situazione. Però, dice san Tommaso, le passioni possono essere anche conseguenti. Cosa vuol dire conseguenti?

Questa consequenzialità della passione può avvenire in due modi. Il primo, «per ridondanza». Cosa vuol dire? Vuol dire che la nostra parte razionale, la sfera superiore della nostra anima vuole una cosa così intensamente, con così tanta decisione e convinzione, che in qualche modo la nostra sfera sensitiva gli va dietro. È il contrario di quello che dicevamo prima. La passione antecedente può portarsi dietro la ragione, oscurare il giudizio di ragione, mentre qui è il contrario: il giudizio della ragione si porta dietro la sfera sensitiva e dunque, per ridondanza, non c’è un intralcio della ragione, ma, al contrario, la ragione riesce a informare la parte sensitiva.

Oppure, secondo punto, «per una scelta deliberata: cioè quando un uomo a ragion veduta delibera di farsi prendere da una passione per agire con maggior prontezza mediante la cooperazione dell’appetito sensitivo» (ibidem). Si pensi al soldato in battaglia, che vede il bene da compiere – difendere la città assediata, supponiamo – e chiama a raccolta la sua parte sensitiva, in questo caso l’irascibile, la collera (che abbiamo visto l’altra volta, nella sfera delle passioni fondamentali), per avere una maggiore prontezza nel compiere quel bene che egli ha visto.

Dunque, in queste due situazioni, la passione conseguente, o per ridondanza o per scelta deliberata, aumenta la perfezione di un atto. Al contrario, se è la passione che precede l’atto di ragione, e lo precede non solo temporalmente ma di fatto lo influenza, lo determina, trascinandosi dietro la ragione, allora è chiaro che non c’è ordine. Torniamo all’immagine dell’auriga, del cocchiere con i due cavalli; se il cocchiere tiene i due cavalli, allora l’atto del cocchiere è perfetto; non è perfetto quando non ci sono i cavalli, il cocchiere non va da nessuna parte senza i cavalli, va a piedi… ma se sono i cavalli che si portano dietro il cocchiere, allora l’atto non è perfetto. Tante volte si vedono in giro persone con il cane: voi vi accorgete quando una persona ha un cane ben addestrato, che risponde all’ordine, eccetera; e quando invece è il cane che si porta dietro il padrone. Capite che in questo secondo caso non c’è ordine, non va bene.

Seconda obiezione: noi dobbiamo imitare Dio, Dio è senza passioni, dunque un atto senza passioni è migliore perché è più vicino all’atto di Dio. Ma san Tommaso ci dice che non è un ragionamento che funziona, perché Dio non ha l’appetito sensitivo, noi sì. E dunque la perfezione dell’atto umano non deve imitare Dio nel senso che deve liberarsi di quell’appetito sensibile che Dio gli ha dato. Invece, deve fare entrare l’appetito sensitivo dentro l’ordine superiore, che è l’ordine di ragione.

Il terzo aspetto ci apre una parentesi, che andremo a focalizzare meglio. Nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso ci dice: «La passione che tende al male, se precede il giudizio della ragione diminuisce il peccato, se invece è conseguente in uno dei modi predetti, o lo accresce o ne indica l’accrescimento» (ibidem). Che cosa ci sta dicendo? Fermiamoci un attimo. Il mio movimento della passione può essere, come abbiamo detto, antecedente o conseguente. Se è antecedente e dunque si trascina in qualche modo la ragione, oscura la ragione, allora deve essere considerato come un principio di debolezza che diminuisce la responsabilità della persona che agisce. Attenzione: “diminuire” non vuol dire che escluda dal peccato e addirittura dal peccato mortale. Non è che se c’è passione, allora automaticamente non c’è il peccato mortale: no, non è così. Però supponiamo di avere una persona che aggredisce qualcuno: se spinta dalla paura, è meno imputabile di una persona che aggredisce qualcuno senza essere mosso dalla paura. Si comprende il senso comune.

Poi, consideriamo la passione conseguente, che è una passione voluta. È chiaro, in questo caso, che se la passione è ordinata, aumenta la bontà, la perfezione dell’atto buono; se è disordinata, invece, non solo non scusa, ma aumenta la gravità dell’atto. La persona lussuriosa, che deliberatamente sceglie di abbandonarsi alla sua lussuria, non è scusata: ha compiuto un atto deliberato di fare entrare la passione e farsi guidare dalla passione.

Un punto importante è che il peccato per passione, cioè spinto in qualche modo, informato dalla passione, porta a quella che viene chiamata – attenzione – l’inconsiderazione attuale. Ne abbiamo parlato a proposito dell’ignoranza. Adesso ne comprendiamo il peso. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando una passione mi spinge in una certa direzione – una passione disordinata – che cosa succede? Succede che i principi che noi pure conosciamo, almeno a livello teorico, lì, in quell’atto particolare che è spinto dalla passione, non entrano in gioco: non ci si accende la lampadina. Perché non ci si accende la lampadina? Semplicemente perché il nostro appetito sensibile ci ha già portato verso una direzione. E dunque anche quello che noi sapevamo, lì, non entra in gioco. C’è un detto latino molto significativo: qualis unusquisque est, talis finis videtur ei. Cosa vuol dire? In sostanza: come uno è, tale anche gli appare il suo fine. In soldoni, al lussurioso la soddisfazione della sua lussuria gli appare come il suo fine proprio, il suo fine buono; al goloso il mangiare, eccetera. Quindi, l’attrazione di un certo bene o la paura di un certo male fanno sì che uno non consideri più la legge morale, la legge naturale, non consideri più i principi: ma come lui è, tale gli sembra il suo fine. Fine della trasmissione, senza altre considerazioni.

Ora, attenzione massima: richiamiamo quello che abbiamo appena detto e quello che avevamo detto sull’ignoranza. Il peccato, potremmo dire con la P maiuscola, che è il peccato di malizia, propriamente deliberato, nasce sempre da che cosa? Nasce sempre da una certa dimensione di ignoranza, soprattutto affettata: cioè, non mi interessa sapere, perché non voglio cambiare la mia vita. Non voglio accrescere la mia conoscenza in quella direzione, perché potrebbe esigere da me quella tal cosa che io non voglio fare. Questo a livello esistenziale è molto facile da capire, tutti abbiamo avuto o avremo questo tipo di dinamica.

Il peccato deliberato nasce sempre da questa ignoranza affettata e/o nasce da quella inconsiderazione di cui abbiamo appena parlato e che viene dalle passioni. Cioè, la passione fa come il cane che trascina il padrone e dunque l’aspetto della legge morale non entra in gioco, perché c’è già la passione che determina.

Tante volte noi passiamo sopra con estrema leggerezza a queste due categorie di peccati, cioè quelli di ignoranza e quelli di inconsiderazione. In realtà non ci rendiamo conto che abituarsi a questi peccati, dunque non contrastarli, non voler fare diversamente, non vincere questa ignoranza, non farsi trascinare dalla passione, arrivando quindi all’inconsiderazione della legge morale, della legge di Dio, questa abitudine cosa crea, a cosa porta? Porta a un’abitudine cattiva, a un vizio. Ed è il vizio che rende gradualmente la volontà connaturale, potremmo dire, al male. La volontà si abitua al male e si inclina più facilmente al male, che non al bene. E che cosa fa? A un certo punto, nella persona, l’appetito sensibile e l’appetito intellettivo si unificano nel male e portano alla deliberazione, alla malizia vera e propria. Cioè, l’ignoranza affettata, quindi l’ignoranza voluta, non contrastata, e la passione con l’inconsiderazione conseguente entrano in concerto con l’abitudine cattiva dell’uomo. Il quale si radica in questo e a quel punto vuole deliberatamente queste cose, non vuole più cambiare e in qualche modo diventa una sua seconda natura, in base alla quale egli agisce.

Dunque, comprendete da una parte l’importanza di uscire dall’ignoranza; dall’altra parte, l’importanza di tutta quella sfera della lotta contro le passioni disordinate. Riportare le passioni nell’ordine di ragione, come abbiamo visto, non è “un male minore”, anzi è qualcosa che concorre alla perfezione dell’atto morale dell’uomo, è tutto il lavoro fondamentale di una vita. Se non si fa questo lavoro, non solo il bene compiuto è parziale, l’atto è monco, diremmo così, ma addirittura realisticamente si va, si scende, ci si sposta verso l’abitudine malvagia e dunque verso la malizia vera e propria. E da lì è veramente difficile tornare indietro, umanamente parlando. Poi, a Dio nulla è impossibile, ma non dobbiamo neanche tentare Dio, evidentemente.



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