Il Papa parla alla Mongolia perché la Cina intenda
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Nella storica visita in Mongolia, papa Francesco fa un appello per la pace e rassicura Pechino sul fatto che la Chiesa non ha un'agenda politica. Incontro con gli ultimi vescovi di Hong Kong (ma non il cardinale Zen).
Nel 1245 papa Innocenzo IV inviò in Mongolia il monaco francescano Giovanni da Pian del Carpine alla corte del khan Güyük per intimargli di convertirsi al Cristianesimo. Il nipote di Gengis Khan rispose sprezzantemente all'ambasciata del discepolo di san Francesco dicendo che se il papa voleva parlargli doveva andare lì di persona. Quasi 800 anni dopo quell'incontro fallimentare, il successore di Innocenzo IV che ha scelto il nome del santo d'Assisi ha realizzato la richiesta del sovrano mongolo visitando la terra del deserto del Gobi.
Prima di lui c'era andato vicino san Giovanni Paolo II nel 2003 prima di essere costretto ad annullare il viaggio per via del peggioramento della sua salute e di commentare amaramente «evidentemente Dio non vuole».
Accolto dal presidente mongolo Ukhnaagi Khurelsukh in abiti tradizionali, Francesco ha parlato anche di questioni relative alle relazioni internazionali. Presumibile pensare che, vista la posizione strategica della Mongolia in mezzo a Russia e Cina, il conflitto in Ucraina sia stato uno dei temi sul tavolo nell'incontro con Khurelsukh visto che nel primo discorso, riadattando un proverbio locale, il Papa si è augurato: «Passino le nuvole della guerra, resti il cielo della pace».
Sin dall'atterraggio Francesco si è dovuto confrontare con un popolo fortemente attaccato alla tradizione: la sfilata della guardia d'onore in aeroporto, il dono della coppia di yak, il presidente in abiti tradizionali che lo riceve nell'altrettanto tradizionale ger, la cerimonia dei cavalieri in sella con armatura di metallo.
In questi giorni il Papa ha abbracciato la minuscola comunità cattolica nata dall'esperienza missionaria dei primi anni Novanta e che può vantare un prefetto apostolico fatto cardinale, il giovane missionario italiano della Consolata Giorgio Marengo. Una scelta che Francesco ha rivendicato spiegando che è «espressione di vicinanza» perché i cattolici mongoli sono «lontani solo fisicamente» ma in realtà sono «vicinissimi al cuore di Pietro». Chissà se nel richiamo all'importanza che «tutte le componenti ecclesiali si compattino intorno al Vescovo» fatto nel discorso al clero incontrato nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo ci fosse un retro pensiero a Roma più che a Ulan Bator alla luce delle tante tensioni nella Chiesa in vista dell'imminente apertura del Sinodo sulla sinodalità.
Sicuramente un altro passaggio del discorso tenuto sabato può essere interpretato in relazione ad una situazione diversa dal contesto in cui è stato pronunciato. «Ecco perché i governi e le istituzioni secolari non hanno nulla da temere dall’azione evangelizzatrice della Chiesa, perché essa non ha un’agenda politica da portare avanti, ma conosce solo la forza umile della grazia di Dio e di una Parola di misericordia e di verità, capace di promuovere il bene di tutti», ha affermato il Papa, e subito la mente di tutti è andata alla vicina Cina.
La Costituzione mongola del 1992, infatti, riconosce la libertà religiosa e dalla fine del regime comunista le porte si sono spalancate ai missionari cristiani. Una realtà ben diversa da quella cinese dove, nonostante il rinnovo dell'Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, la Santa Sede è costretta a mandar giù continui bocconi amari e la vita dei fedeli sembra persino peggiorata perché il governo non vuole fare a meno di sinizzare il Cristianesimo.
D'altra parte, è molto difficile che Bergoglio possa recarsi a Pechino e dunque in quella direzione pare rivolgersi da una delle capitali ad essa più vicina. Nel suo discorso alla comunità cattolica di Mongolia ha usato belle parole di spiritualità come quando, invitando a «gustare e vedere il Signore», ha invitato i fedeli a rimanere «a contatto con il volto di Cristo, scrutandolo nelle Scritture e contemplandolo in silenzio adorante – ribadendo in silenzio adorante – davanti al tabernacolo, lo riconoscerete nel volto di quanti servite e vi sentirete trasportati da un’intima gioia, che anche nelle difficoltà lascia la pace nel cuore».
Ieri, invece, il Papa ha celebrato la Santa Messa nella Steppe Arena, lo stadio da hockey su ghiaccio della capitale, davanti ad un migliaio di persone provenienti anche dai Paesi vicini, Cina compresa. E proprio in quella direzione Bergoglio ha rivolto la sua attenzione al termine della funzione chiamando accanto a sé gli ultimi due vescovi di Hong Kong, l'emerito cardinale John Tong Hon e il cardinale designato Stephen Chow attualmente in carica. Assente invece il cardinale novantunenne Joseph Zen, arrestato un anno fa con l'accusa di collusione con le forze straniere per aver aiutato degli attivisti pro-democrazia. «Vorrei inviare un caloroso saluto al nobile popolo cinese», ha detto il Papa augurando loro «il meglio, andare avanti, progredire sempre, e ai cattolici cinesi auguro di essere buoni cristiani e buoni cittadini». Quest'ultimo augurio è probabilmente pensato in modo tale da non irritare il regime comunista. Ma basterà? A prescindere dalle intenzioni di Santa Marta, Pechino finora ha dimostrato di considerare la Chiesa alla stregua di un partito politico e quindi l'essere cristiani come una minaccia all'autorità statale.
Prima della celebrazione, Francesco è stato impegnato nell'incontro ecumenico ed interreligioso all'Hun Theatre durante il quale ha pronunciato un discorso contro i fondamentalismi e a cui ha partecipato anche l'archimandrita Anatoly Gussev, parroco della chiesa russo-ortodossa locale. Poco più di un mese fa Leonid Sevastyanov, presidente dell’Unione Mondiale dei Vecchi Credenti, aveva detto che il Papa avrebbe proposto al patriarca Kirill un faccia a faccia lampo in occasione del viaggio d'andata (o di ritorno) verso la Mongolia, magari in occasione del rifornimento aereo. La circostanza non si è verificata all'andata, vedremo cosa accadrà per il volo di oggi in direzione Roma.
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