Il Papa e i Rohingya, mai strumentalizzare
Alla vigilia del viaggio di papa Francesco in Myanmar e Bangladesh, i due paesi hanno trovato giovedì un accordo sul rimpatrio dei profughi musulmani Rohingya. Ma il vescovo di Dacca invita a non strumentalizzare la visita del Papa. E a non dimenticare la persecuzione dei cristiani.
Alla vigilia del viaggio di papa Francesco in Myanmar e Bangladesh (26 novembre - 2 dicembre), i due paesi hanno trovato giovedì un accordo sul rimpatrio dei profughi musulmani Rohingya, che a centinaia di migliaia sono scappati negli ultimi tre mesi per sfuggire a violenze che il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, ha recentemente definito come un «tentativo di pulizia etnica».
In risposta a un attacco da parte dei terroristi islamici dell'Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), l'esercito birmano ha cominciato il 25 agosto un'offensiva durissima contro la popolazione Rohingya dello Stato di Rakhine, dove costituiscono una minoranza a fronte della maggioranza buddista. Decine di villaggi sono stati distrutti o dati alle fiamme e numerosi crimini contro l'umanità sarebbero stati commessi. Alle violenze dell'esercito si sono aggiunte quelle dell'Arsa e 620 mila persone si sono rifugiate in Bangladesh nell'area di Cox's Bazar, confinante con il Myanmar, dove già si trovavano 200 mila profughi. Le condizioni nei campi di accoglienza sono drammatiche e ora i due paesi hanno trovato un accordo per farli tornare in Myanmar, a partire da gennaio.
La questione dei Rohingya è estremamente delicata nell'ex colonia britannica e rappresenta un problema di difficile risoluzione per la leader democratica e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Il governo, che ha assunto una parvenza democratica ma non si è ancora del tutto affrancato dal regime che domina il paese da decenni, non ha mai riconosciuto questa etnia e si rifiuta di utilizzare il termine “Rohingya”, anche per non irritare la maggioranza buddista del paese, preferendo piuttosto l'appellativo “bengalesi di fede musulmana”. Il governo non li considera veri birmani e per questo li discrimina, arrivando spesso anche a una vera e propria persecuzione, negando l'accesso al sistema educativo e sanitario, impedendo che vengano assunti in posti pubblici e in alcuni casi rinchiudendoli in campi profughi, che secondo alcune fonti sarebbero addirittura simili a campi di concentramento. I buddisti birmani non amano i Rohingya anche perché questi hanno tentato la secessione nel 1948, fallita nel 1961. La nascita di un gruppo terroristico vicino all'Arabia Saudita, Arsa, che rivendica i diritti dei Rohingya con la violenza, non ha fatto che renderli ancora più indesiderati.
Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, al pari di dissidenti scappati all'estero, non si fidano del governo birmano e chiedono all'Onu di monitorare il rientro dei profughi per garantire che vengano davvero riportati nei loro villaggi e che le case distrutte siano ricostruite. Al di là dei timori sulle condizioni dell'accordo raggiunto tra Bangladesh e Myanmar, del quale non si conoscono ancora i dettagli, il memorandum firmato dai due paesi si può già ritenere un piccolo successo della visita di papa Francesco, che accendendo i riflettori internazionali su questa regione del mondo ha quasi costretto i due governi a trovare una soluzione.
I media però hanno posto un'attenzione eccessiva sulla situazione dei Rohingya in relazione alla visita del Papa. Tanto che pochi giorni fa il cardinale Patrick D'Rozario, arcivescovo di Dhaka, capitale del Bangladesh, ha risposto ai giornalisti davanti all'ennesima domanda su un'eventuale visita di Francesco ai campi profughi: «Il primo scopo della visita del Papa non sono i Rohingya. Il Santo Padre ha espresso il desiderio di venire in Bangladesh due anni fa. A quel tempo la crisi non era ancora scoppiata. La sua visita non è legata ai profughi». Le parole del cardinale non vanno interpretate come scarsa sensibilità verso i musulmani: è infatti soprattutto merito dell'aiuto offerto dalla Chiesa cattolica se nei campi profughi non sono morti di fame. Lo stesso cardinale, inoltre, a settembre ha diffuso una lettera invitando il mondo intero ad «ascoltare il pianto dei Rohingya sofferenti», che ogni giorno vengono aiutati da Caritas Bangladesh.
Il richiamo è piuttosto a non strumentalizzare la visita del Papa e soprattutto a non spostare i riflettori dalla difficile situazione che in Bangladesh vivono i cattolici (375 mila su 160 milioni di abitanti, per il 98% musulmani, che è religione di Stato), spesso perseguitati, in un momento in cui i gruppi terroristi islamici stanno crescendo nel paese. La speranza, infatti, è che il Papa possa migliorare l'armonia e la convivenza. Lo stesso vale per il Myanmar, dove i cattolici (appena l'1 per cento della popolazione) hanno chiesto a Francesco di non utilizzare il termine “Rohingya” per non politicizzare la visita e per non mettere in pericolo la comunità. La presenza del Pontefice nel paese potrebbe piuttosto essere l'occasione per aiutare a rafforzare i rapporti tra buddisti e cristiani e per portare, come dichiarato dal portavoce vaticano Greg Burke, «quel messaggio di pace, perdono, riconciliazione e speranza» di cui c'è un così disperato bisogno.