Il duello sui dazi rivela che l'Ue non ha capito il suo ruolo
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I dazi sono uno strumento politico (molto più che economico) usato da Trump per serrare le fila dell'Occidente, chiedendo di abbattere le barriere (tariffarie e non) dell'Europa. Ma l'Ue non capisce e risponde con ritorsioni.

La condotta che l'Unione Europea ha finora tenuto nei confronti degli Stati Uniti nella trattativa sui dazi lanciati dal presidente Donald Trump non è sbagliata su questo o quell'aspetto della contesa, ma è sbagliata alla radice: nell'atteggiamento complessivo nei confronti del problema, nella sua incapacità di comprenderne i fondamenti e le implicazioni, nella concezione del ruolo del vecchio continente nell'attuale assetto mondiale che la ispira.
Da quegli errori di fondo derivano – nonostante il più lucido ed equilibrato approccio di leader nazionali come Giorgia Meloni e gli sforzi generosi del commissario europeo Sefcovic - gli impasse nella trattativa che oggi provocano l'irrigidimento di Washington, e che rischiano di produrre danni giganteschi a un continente che vede gli Stati Uniti tra i principali destinatari delle sue esportazioni.
Infatti l'elemento fondamentale che la leadership Ue dovrebbe comprendere a fondo – e mostra invece di non avere ancora per nulla compreso – per ispirare le proprie decisioni è il fatto che la partita globale che Trump sta giocando in questi mesi attraverso l'offensiva dei dazi a tutto campo non è soltanto strettamente economica, ma anche e in primo luogo politica. Innalzando barriere protezionistiche per rinegoziare le condizioni del commercio internazionale in una direzione più favorevole agli interessi statunitensi l'attuale inquilino della Casa Bianca non sta cercando soltanto di riequilibrare la bilancia commerciale del suo paese, da decenni strutturalmente sfavorevole, o di raddrizzare la deriva presa dai processi di globalizzazione che negli ultimi decenni hanno arricchito e reso enormemente più potenti i paesi asiatici – Cina in testa – ridimensionando quelli occidentali, mettendo in ginocchio in essi molti settori industriali strategici e creando drammatiche lacerazioni sociali.
Oltre a questi aspetti, che nell'interpretazione di Trump generano delle debolezze non più sostenibili nell'economia, nella coesione sociale e nella forza politica degli Stati Uniti nel mondo, Trump sta puntando ad un obbiettivo molto più ambizioso: ridefinire gli equilibri di potenza mondiali a partire dall'identificazione di un fondamentale bipolarismo tra Stati Uniti e Cina. Il suo scopo ultimo è quello di limitare il più possibile l'influenza politica del regime di Pechino nel mondo, ridisegnando un'area il più possibile integrata, autonoma da essa e compatta, dell'Occidente, e attraendo interlocutori esterni accomunati da interessi convergenti. La sua è una visione dell'economia mondiale indissolubilmente legata alla politica, che parte dalla constatazione che l'epoca della globalizzazione post-1989 è irrimediabilmente finita, e che però non è interesse degli Stati Uniti e degli altri paesi industrializzati liberaldemocratici occidentali, pur riconoscendo e correggendo gli effetti negativi che essa ha prodotto su di loro, dissiparne del tutto l'eredità.
In tale spirito, Trump ritiene che gli Stati Uniti debbano stringere i legami economici e politici con i paesi affini e alleati costruendo una sorta di "piccola globalizzazione" occidentale: un'area omogenea e solida, in cui vengano corretti i grandi squilibri che ne impediscano una effettiva solidarietà. Tra questi, le barriere daziarie e non daziarie (iper-regolamentazioni, farragini burocratiche, rendite di posizione) che per tutto il secondo dopoguerra hanno fatto sì che gli Stati Uniti abbiano avuto soprattutto una funzione di consumatore piuttosto che di esportatore; e, sul piano dell'alleanza politico-militare, una strutturazione della NATO che si è retta sul fatto che le spese per armamenti hanno gravato quasi interamente sulle spalle degli americani.
Quello che Trump chiede, insomma, agli alleati e ai paesi amici non è soltanto un riequilibrio di scambi e patti (tra cui le spese militari) per dare respiro all'economia statunitense e favorire la crescita del reddito, dell'occupazione, della domanda. Questo, in vari modi, egli lo chiede a tutti i paesi con cui Washington intrattiene relazioni commerciali, inclusi quelli politicamente più lontani come, appunto, la Cina.
Dagli alleati il presidente americano esige molto di più: esige quello che alcuni politologi chiamano constructive engagement, ossia la propensione a relazioni e interazioni animate non soltanto da una limitata percezione di interesse convergente, ma da uno spirito, da principi e da obiettivi comuni.
Nella fattispecie, Trump sta avvertendo gli alleati, a partire da quelli europei, che il mondo post-globale è caratterizzato da qualcosa che assomiglia molto a una nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, fondata su contrapposizioni non solo e non tanto ideologiche ma geopolitiche, e in cui giocano un ruolo fondamentale non soltanto il confronto tra armamenti, eserciti, sistemi di spionaggio e sorveglianza, ma anche il controllo delle vie di comunicazione e delle rotte commerciali, gli investimenti nella ricerca tecnologica, il dominio dello spazio, e soprattutto il controllo delle materia prime, a partire da quelle utili all'industria hi tech, che sono diventate una tra le principali armi di ricatto e risorse di scambio nella ridefinizione degli equilibri di potenza.
In questo quadro, il presidente americano si aspetta dai paesi Nato/G7/Ue una precisa, inequivocabile scelta di campo. Si aspetta che essi, dopo le molte oscillazioni e ambiguità dei decenni precedenti, scelgano chiaramente se stare dalla parte degli Stati Uniti, di un Occidente fortemente integrato e rafforzato, o continuare a strizzare l'occhio a Pechino. L'impegno a maggiori investimenti nelle spese militari, ma non nell'ottica di una fantomatica e inutile "difesa europea" bensì nell'alveo solido della Nato, ottenuto da Trump all'ultimo vertice dell'Alleanza, è stato il primo passo deciso in questa direzione. La trattativa sui dazi punta nella stessa direzione. Punta, nello specifico, a mandare all'aria definitivamente l'illusione, coltivata per molto tempo dalle classi dirigenti dell'Unione, di configurare quest'ultima come una potenza economica e commerciale concorrenziale con gli Stati Uniti, e in grado di giocare su più tavoli, in primis appunto quello cinese.
Trump sta dicendo agli europei: o siete a tutti gli effetti parte di un'area economica integrata occidentale, paritaria e senza rendite, o ve la cavate da soli, e andate verso la sudditanza a Pechino e l'impoverimento.
Che la Commissione von der Leyen non veda questa alternativa, e continui a propettare l'eventualità di un braccio di ferro con Washington, di reazioni, di "controdazi", di "bazooka", è il sintomo di una confusione politica strutturale, della mancanza di una visione realistica del mondo in cui il vecchio continente oggi si trova ad operare, sul piano economico come su quello politico. Una mancanza di visione che, se non corretta al più presto da una governance più saldamente ancorata ai principi occidentali, non potrà che portare a uno smarrimento e ad una disgregazione dell'Unione stessa.