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l'analisi

Il discorso di Vance e il ritorno al reale

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Il ritorno al reale in difesa dell'autentica libertà che non inizia mai solo da se stessa, ma si nutre di realtà e di “senso comune”, va valutato positivamente. Un'analisi del discorso di Vance a Monaco alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa. 

Editoriali 18_02_2025

Cosa direbbe la Dottrina sociale della Chiesa del discorso del vicepresidente americano James David Vance a Monaco di venerdì 14 febbraio scorso? Quell’intervento è destinato ad essere ricordato a lungo sia per le cose che sono state dette, sia per quelle che sono state solo adombrate, sia anche per quelle che dovrebbero essere dette per completare il ragionamento.

Sarà ricordato a lungo non solo per l’impatto sui temi politici, economici e militari di attualità, ma soprattutto per il tentativo di fare una proposta completa che vada alla radice dei motivi della convivenza politica. Al cuore del discorso c’è stata la constatazione che il nemico non si trovi all’esterno ma all’interno sia dell’Europa che dell’America e che consista in un arretramento dai propri valori fondativi. Una malattia dell’anima, una estenuazione delle proprie forze morali e spirituali.

Il lettore del discorso può aver pensato che questa critica di Vance fosse rivolta solo all’Europa. Invece era rivolta anche all’America, ma con la differenza che lì ci si è svegliati mentre l’Europa vive ancora nel sonno profondo dell’artificio che non tiene conto della realtà. Per esempio: in Europa si attua una pedagogia forzata delle masse per educare l’uomo europeo, però per fare questo si utilizzano tecniche sviluppate negli Stati Uniti, dove l’educazione delle masse ha una lunga storia scientifica e pratica.

Gli americani hanno però iniziato a cambiare rotta e la nuova amministrazione, per esempio, ha abolito l’USAID che finanziava forme di educazione civica ideologiche e forzate, sovversive del senso comune. Vance quindi parla sia di una ideologia europeista, sia di una ideologia americanista. Denuncia soprattutto la prima, ma solo perché della seconda aveva parlato a lungo in campagna elettorale e perché è il rappresentante di un governo che ne è uscito. Le sue parole rivolte all’Europa, così dure, la sua parresia che non ha concesso granché al bon ton politico pur trovandosi in un contesto diplomatico, derivano dalla consapevolezza di rappresentare un’America che è uscita o sta per uscire da un sistema pseudo-totalitario in cui invece gli europei sono ancora invischiati.     

Visto dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa, questo “ritorno al reale” in difesa della autentica libertà che non inizia mai solo da se stessa ma si nutre di realtà e di “senso comune”, va valutato positivamente. Giovanni Paolo II, che Vance peraltro cita alla fine del suo discorso, aveva scritto nella Evangelium vitae che “il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove”. Purtroppo, la Chiesa in Europa, come è stato recentemente mostrato in un Rapporto a ciò dedicato, non ha cercato di liberare il popolo dall’ideologia europeista, si è accodata a tutte le politiche dimostratesi poi fallimentari, ha rinunciato al proprio ruolo di educare alla verità alla luce della ragione e della fede. Si può allora dire che il discorso di Vance implicitamente contenga anche un rimprovero all’atteggiamento della Chiesa cattolica, diventata una “cappellania” del corso politico imperante. Ma se ci si riferisce alla Dottrina sociale della Chiesa piuttosto che alla sua prassi, il giudizio su questi aspetti del discorso non può che essere positivo.

C’è poi un ambito dell’intervento Vance in cui si allude a delle prospettive interessanti. Quando egli entra nel merito del tema della crisi della democrazia in Europa dice che la vera democrazia è quella che ascolta il popolo, che non fagocita le voci, le opinioni, le coscienze (i riferimenti alle costrizioni nel campo dell’aborto in Inghilterra e in Scozia sono state molto eloquenti), che si basa sul principio che il popolo conta, che accetta il volere del popolo anche quando non concorda con esso, che cerca un vero mandato democratico per poter fare le scelte difficili necessarie.

Ciò non è avvenuto e non avviene in Europa, come dimostrano i diversi casi da lui ricordati. Così dicendo, egli sembra intendere il popolo non come un insieme irrelato di individui secondo la visione dell’individualismo liberale, ma come un organismo che detiene un “sentire comune” che non nasce con esso ma che lo precede. Questo è quanto Vance adombra, una dimensione a cui sembra alludere in riferimento a quel “buon senso” evocato anche da Trump nel discorso di investitura. La democrazia  - sembra voler dire – non deve consistere, pena il proprio suicidio, nella lotta a colpi di maggioranza a quel senso comune che il popolo conserva in sé. Si tratta però di cenni e rimandi che, se sviluppati troverebbero il consenso pieno della Dottrina sociale della Chiesa.

E veniamo infine a quanto Vance non ha detto perché si è fermato prima, ma a cui la Dottrina sociale tiene molto. Su cosa si fonda ultimamente la democrazia? Dire che essa si fonda sul mandato popolare, anche con le promettenti allusioni alla natura del popolo di cui ho appena parlato, è insufficiente. Richiamare l’Europa a non addomesticare il mandato popolare o addirittura a negarlo, come nel caso da lui citato dell’annullamento delle elezioni in Romania, non basta, perché in questo modo si può fondare una “sovranità” del popolo ugualmente potenzialmente totalitaria. Qui la Dottrina sociale della Chiesa interverrebbe per chiedere a Vance di continuare sulla strada di quel “sentire comune” a cui aveva alluso, per arrivare a concepire quell’ordine sociale e finalistico che dà alla democrazia i valori da difendere. Le maggioranze non creano i valori, li rispettano e li difendono.