Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Ora di dottrina / 129 – La trascrizione

Il decreto sulla giustificazione – Il testo del video

Approvato dal Concilio di Trento nel 1547, il decreto De iustificatione rispose alle obiezioni dei protestanti confermando l’insegnamento cattolico sul tema centrale della salvezza: la giustificazione dell’empio. I canoni antipelagiani, la necessità della grazia e il rapporto con il libero arbitrio.

Catechismo 15_09_2024

Come anticipato nella scorsa lezione, oggi cerchiamo un po’ di entrare all’interno della disputa del XVI secolo tra il mondo legato alle persone-chiave del protestantesimo, a Lutero, Melantone, Zwingli, Calvino, da una parte, e la Chiesa cattolica dall’altra, su un tema fondamentale. Ci sono stati moltissimi temi dibattuti, oggetti di scontro con il mondo protestante nel XVI secolo, ma a noi interessa il grande tema della giustificazione. Vi chiedo di ricordare in particolare l’ultima catechesi del mese di luglio, dedicata proprio alla giustificazione, e anche quelle dell’1 e 8 settembre (vedi qui e qui), dedicate al merito, perché saranno proprio i temi di questa catechesi e della successiva.

Ma questa volta li tratteremo così come vengono espressi nel Decreto sulla giustificazione, cioè quel decreto che il Concilio di Trento, approvò il 13 gennaio 1547, per esporre, chiarire, confermare l’insegnamento cattolico, quindi la dottrina rivelata su questo tema fondamentale, che è il tema centrale della salvezza, cioè la giustificazione dell’empio: l’empio che diviene giusto. E questo è un tema appunto molto caldo nel confronto con il mondo protestante. Non è una catechesi che vuole riassumere tutte le sfaccettature di questo confronto, che evidentemente richiederebbe una monografia intera, ma vuol essere un riassunto che ci permetta di avere alcuni punti fermi.

Lo scontro con il mondo protestante nasce da una “constatazione” che il mondo luterano voleva mettere in luce a fronte invece di un’insufficienza – dal suo punto di vista – della proposta cattolica. In sostanza, qual è il riassunto di questa posizione? Se la giustificazione dell’empio, cui si attribuiscono i meriti di Cristo, provenisse dalle opere, come affermavano e come affermano i cattolici, allora essa non è grazia e la Redenzione viene vanificata, perché se le opere giustificano, a cosa serve la croce di Cristo, a cosa serve la grazia?

Nell’articolata esposizione di san Tommaso d’Aquino, abbiamo visto come in realtà questa obiezione non va a colpire la posizione cattolica, ma va a colpire semmai quella pelagiana. Infatti, la grande accusa che veniva sollevata dal mondo protestante al mondo cattolico era proprio quella di essere un revival del pelagianesimo. Ricordiamo che il pelagianesimo è quell’eresia che vide sant’Agostino sulla breccia, per combatterla. La possiamo riassumere così: nella sua forma più radicale, è la sufficienza delle opere umane e del libero arbitrio dell’uomo per salvarsi, cioè la salvezza o la dannazione sono in potere dell’uomo, dipende da come si comporta. Nella sua versione più sfumata o semipelagiana, invece, non sono sufficienti le opere dell’uomo per la salvezza eterna, per la sproporzione tra la dimensione naturale e quella soprannaturale, ma il libero arbitrio dell’uomo, la sua libertà, rimasta perfettamente integra, farebbe sì che l’uomo possa compiere, nella loro integralità, delle opere buone, anche senza la grazia, così come possa non peccare stabilmente anche senza l’aiuto della grazia. Sono temi che abbiamo già affrontato, mostrando che, da un lato, è vero che non ogni opera di colui che non è stato giustificato dalla grazia è peccato; dall’altro, tuttavia, senza la grazia è impossibile perseverare in una situazione di impeccabilità. Non ogni atto è peccato e, tuttavia, data la fragilità della natura umana decaduta, non è possibile in realtà poter perseverare senza peccare, come dicevano i semipelagiani. Così come dall’altra parte, riguardo al compimento delle opere buone, esse sono certamente possibili anche per una persona che non è in grazia: una persona che non è in grazia può compiere delle buone opere; e tuttavia non può compierle nella loro stabilità e integralità senza l’aiuto della grazia.

I riferimenti luterani e calvinisti erano sostanzialmente due: le lettere di san Paolo, in particolare la Lettera ai Romani, e i testi di sant’Agostino, soprattutto quelli antipelagiani, alla luce dei quali i protestanti accusavano e accusano ancora in qualche modo la Chiesa cattolica di non aver mantenuto fedeltà alla Rivelazione e alla dottrina di sant’Agostino, ma di essere scivolata in una posizione pelagiana.

I nuclei più importanti della posizione luterana sono riassumibili in quattro punti:

1) la natura umana è del tutto corrotta; anche la posizione cattolica afferma una corruzione della natura umana, ma con alcune distinzioni che non la spostano sul versante pelagiano, come abbiamo già visto, ma che la richiamano in qualche modo all’interno dell’opera della giustificazione che avviene per grazia;

2) il battesimo, l’infusione della grazia, non guarisce questa natura corrotta. Dunque, non si ha una rigenerazione vera e propria, come affermiamo invece noi cattolici. Ma cosa fa, secondo i luterani, il battesimo? “Ricopre” l’uomo peccatore della giustizia di Cristo, cosicché non sia più imputabile. È una sorta di mantello che viene calato su di lui: viene appunto ricoperto della giustizia di Cristo, in modo da non essere più imputabile di quella colpa, ma non c’è propriamente una rigenerazione interiore. La natura umana resta radicalmente corrotta. E da questo punto di vista non c’è sostanziale differenza tra la natura umana prima della giustificazione e dopo la giustificazione, essendo la giustificazione in qualche modo una copertura, un manto che viene posto per coprire l’iniquità della natura umana;

3) siamo giustificati per la sola fede. E da questo punto di vista, l’uomo non smette mai di essere peccatore. Non è propriamente un’istigazione al peccato, però, il punto è questo: l’uomo non smette di essere peccatore, lo salva solo la fede.

4) date le premesse che abbiamo visto, si capisce che in nessun modo si può affermare che le opere meritino la salvezza, la vita eterna. Essendo la nostra natura corrotta, le opere che procedono da questa natura chiaramente saranno altrettanto corrotte. E dunque come si può pensare a opere quali fonti di merito?

Questa è sostanzialmente la posizione protestante riguardo alla giustificazione.

Ora, il decreto De iustificatione, approvato dai padri conciliari nella VI sessione del Concilio di Trento – un Concilio molto lungo, molto articolato e dal valore dogmatico che è fuori discussione – è composto da 16 brevi capitoli espositivi, affermativi, esplicativi della dottrina cattolica e della Rivelazione e da 32 canoni di condanna.

Cosa sono i canoni di condanna? Sono quelli che iniziano sempre con “se qualcuno afferma che…” e concludono “sia anatema”, sia scomunicato. Questi canoni hanno sempre avuto una funzione importante, preziosa, di andare ulteriormente a precisare, in senso negativo, l’esposizione affermativa della fede. Cioè, il Concilio di Trento adotta questa strutturazione – che non è un unicum – con cui si afferma la fede e dall’altra parte si esclude l’errore. E in questo modo, con entrambi i versanti dell’affermazione della dottrina cattolica, si cerca il più possibile di fare chiarezza su una dottrina e di evitare interpretazioni fuorvianti o sbagliate. Quindi, è un metodo espositivo molto intelligente, molto efficace, anche molto pedagogico, che non deve essere interpretato erroneamente. Da molti è stato infatti interpretato come un’espressione della “Chiesa della condanna”: non c’entra niente. La questione è la chiarificazione: perché se devo custodire, affermare, esprimere il bene, devo necessariamente condannare, allontanare ciò che lede questo bene: in questo caso, ciò che lede il bene della verità è il male dell’errore, dell’eresia. In un tempo irenistico come il nostro, pensiamo che bisogna solo affermare il bene: è una sciocchezza che non tiene conto della realtà dell’uomo; infatti, mai come in questo tempo c’è grande confusione su qualsiasi cosa.

Questo Decreto sulla giustificazione è molto complesso. Ci prenderemo un po’ di tempo per conoscerlo, per spiegarlo. In particolare ci soffermeremo (non esclusivamente) sui primi nove capitoli della parte espositiva e i primi 17 canoni della parte di condanna. Questa parte è quella che si dedica proprio alla giustificazione in senso stretto, cioè la giustificazione di essere costituiti in grazia, nell’amicizia con Dio.

Vediamo i primi tre canoni di questo decreto che partono con il piede giusto, affermando l’insufficienza delle opere per ottenere la giustificazione e la necessità della grazia. Il primo canone afferma: «Se qualcuno afferma che l’uomo può essere giustificato davanti a Dio con le sole sue opere, compiute mediante le forze della natura umana o grazie all’insegnamento della legge, senza la grazia divina che gli viene data per mezzo di Gesù Cristo, sia anatema». Chiaramente, questo è il canone antipelagiano per eccellenza, in cui si afferma che le opere compiute dall’uomo, l’osservanza della legge, le forze della natura umana non ottengono per sé stesse, da sole, la giustificazione davanti a Dio. Non sono in grado, non possono, abbiamo spiegato già il perché.

Dunque, nel suo lato affermativo, qui c’è l’affermazione del fatto che la prima grazia è un dono puro, gratuito, di Dio. Il primo passo della giustificazione è un “passo divino”, è un passo di pura grazia, non può essere ottenuto da qualcosa di umano.

Secondo canone: «Se qualcuno afferma che la grazia divina, meritata da Gesù Cristo, viene data all’uomo soltanto perché possa più facilmente vivere nella giustizia e meritare la vita eterna, come se con il libero arbitrio, senza la grazia, egli possa ottenere l’una e l’altra, benché faticosamente e con difficoltà, sia anatema». Secondo canone chiaramente antipelagiano. La grazia non viene data all’uomo per facilitare all’uomo la giustificazione, non è una facilitazione, come se l’uomo potesse difficilmente farlo con le sue forze, mentre con la grazia lo fa con più facilità. Non è questo. C’è una radicale incapacità dell’uomo di ottenere la giustificazione con qualsiasi cosa venga solo dalla sua parte. È necessario un intervento gratuito divino.

Terzo e ultimo canone di questa sezione: «Se qualcuno afferma che l’uomo, senza l’ispirazione preveniente dello Spirito Santo e senza il suo aiuto, può credere, sperare e amare o pentirsi come si conviene per ottenere la grazia della giustificazione, sia anatema». Come vediamo, questo canone richiama la struttura quadripartita della giustificazione in san Tommaso. Cioè, l’infusione della grazia è primaria. Seguono poi le virtù teologali – in particolare abbiamo visto la fede, formata dalla carità – e poi la detestazione delle colpe, il pentimento e quindi la remissione dei peccati. Questo canone non sta dicendo che tutto il resto non c’entra con la giustificazione: sta dicendo che l’uomo non può fare il passaggio 2 (la fede), il passaggio 3 (il pentimento), il passaggio 4 (la remissione delle colpe), se non c’è il primo movimento fontale che viene da Dio, l’infusione della grazia.

Dunque, sono tre canoni che mettono al sicuro la dottrina cattolica da qualsiasi accusa di pelagianesimo. E sono canoni che devono essere fortemente ribaditi anche nel nostro tempo, dove sembra invece appunto che la grazia sia un sovrappiù, dove cioè gli uomini possono e devono vivere, edificando la loro civiltà, le loro virtù, i loro valori, senza l’aiuto della grazia. Al massimo – si dice – la grazia può aiutare, dare una mano, facilitare: è più facile compiere le opere buone con la grazia, è più facile condividere i valori fondativi di una società con la grazia, etc. La grazia non è necessaria a questo livello: non che non sia importante ma non è qui principalmente che agisce. È fondamentale che agisca anche lì, ma la grazia è data soprattutto per quel che l’uomo non potrà mai ottenere con tutte le sue meravigliose invenzioni, opere, anche culturali, morali, cioè la giustificazione, il passaggio dallo stato di empietà allo stato di giustizia. Dunque, la grazia non è un semplice facilitatore delle opere dell’uomo.

Questi tre canoni affermano l’insufficienza radicale delle opereex parte hominis – quanto alla giustificazione e, dunque, la necessità della grazia e appunto la gratuità: il primo passo viene fatto da Dio.

Poi c’è un secondo blocco di canoni – qui ne leggeremo solamente tre – che trattano, chiariscono la verità sul libero arbitrio, sulla libertà dell’uomo. Ricordiamo che uno dei capisaldi della rottura luterana è stato questo: la natura umana è del tutto corrotta.

Vediamo cosa risponde il Concilio di Trento, con il canone 4: «Se qualcuno dice che il libero arbitrio dell’uomo, mosso e stimolato da Dio [sottolineiamo questo inciso], non coopera in nessun modo, esprimendo il proprio assenso a Dio, che lo muove e lo prepara a ottenere la grazia della giustificazione e che egli, se lo vuole, non può rifiutare il suo consenso, ma come cosa inanimata resta assolutamente inerte e gioca un ruolo del tutto passivo, sia anatema». Questo è un canone decisivo, perché risponde a una dottrina secondo la quale il libero arbitrio dell’uomo non avrebbe nulla a che fare con l’opera della giustificazione, restando inerte e con un ruolo del tutto passivo, come riassume il canone, solamente e puramente in tutte le fasi della giustificazione, recettivo. Non è così, non è solo così. Sappiamo che il primo movimento chiaramente è una recezione, ma questa recezione della grazia – lo abbiamo visto tante volte – non anestetizza, non sterilizza il libero arbitrio, non lo lascia inerte, ma lo stimola e lo rende capace di agire per quello che è, il libero arbitrio dell’uomo.

Da qui, la sottolineatura ripetuta del Concilio di Trento. Nessuno sta dicendo che il libero arbitrio dell’uomo entra nella giustificazione, punto. Ma, vedete, «mosso e stimolato da Dio, che lo muove e lo prepara»: c’è sempre questo intreccio del libero arbitrio con la grazia. Mai c’è il libero arbitrio senza la grazia. E la grazia, che all’inizio viene donata senza il libero arbitrio dell’uomo, poi agisce sempre in concerto con il libero arbitrio dell’uomo, con questa azione di mozione, preparazione, stimolazione, accompagnamento della libertà dell’uomo.

Il canone 5 afferma: «Se qualcuno afferma che il libero arbitrio dell’uomo, dopo il peccato di Adamo, è perduto ed estinto o che esso è solo apparente, anzi nome senza contenuto e perfino inganno introdotto nella Chiesa da Satana, sia anatema». Questi erano i toni che si usavano in questa disputa. Da parte protestante c’era l’accusa che la dottrina sul libero arbitrio fosse di origine demoniaca. Perché di origine demoniaca? Perché riprendeva l’eresia di Pelagio. Ma il punto non è questo. Sant’Agostino, nella sua reazione al pelagianesimo, e ancor più san Paolo, nelle sue lettere, allorché le si leggano con una corretta esegesi nel loro insieme, non affermano mai che il libero arbitrio dell’uomo non esiste o che sia irrimediabilmente perduto. Affermano invece un’altra cosa: la necessità della grazia perché questo libero arbitrio torni a “funzionare”, secondo la sua statura.

L’ultimo canone che voglio leggervi è il 9, che è sempre su questa linea, cioè cercare di “riagganciare” in qualche modo il libero arbitrio: non pensare che la giustificazione sia un’opera esclusiva di Dio, senza che l’uomo abbia nulla a che fare, se non riceverla come ricevesse una doccia di acqua fredda. «Se qualcuno afferma che l’empio è giustificato dalla sola fede, nel senso che non si richiede nient’altro per cooperare al conseguimento della grazia della giustificazione e che non è assolutamente necessario che egli si prepari e si disponga con un atto della sua volontà, sia anatema».

Di nuovo, quando abbiamo esposto la dottrina sulla giustificazione, abbiamo già visto, con la sintesi di san Tommaso, che la giustificazione è un’opera che ha due soggetti, che non sono sullo stesso livello evidentemente. C’è una priorità dell’azione divina. Priorità, diciamo così, temporale, perché la grazia è sempre preveniente; priorità di forza, di grandezza, ma non è una grandezza che schiaccia ed esclude la parte dell’uomo; l’uomo non viene salvato come verrebbe salvato un uccellino, a prescindere dalla sua azione, da quello che egli compie. Ma perché? Precisamente, Dio agisce sempre rispettando la natura dei soggetti a cui Egli presta soccorso. E dunque tratta ogni cosa secondo la sua natura.

L’uomo ha una natura razionale, quindi ha una libertà. Questa libertà entra nel concerto dell’opera di giustificazione che viene avviata dalla grazia, condotta dalla grazia, portata a compimento dalla grazia, ma nella quale entra il libero arbitrio.

Questi canoni che abbiamo letto sono decisivi per correggere questa deriva del protestantesimo. I primi canoni affermano la necessità della grazia. La grazia è indispensabile nell’opera della giustificazione e nulla di quello che viene dall’uomo è in grado da solo di portare la giustificazione, quindi il passaggio dall’empietà alla giustizia. Ma dall’altra parte – et et – questo non significa escludere la libera azione dell’uomo: al contrario, è proprio la grazia che recupera questa libertà ferita ma non distrutta, claudicante ma non inesistente. La recupera, la riporta in qualche modo alla possibilità di agire secondo quel che è chiamata ad essere, all’interno di questa opera condotta e portata avanti dalla grazia.

La prossima volta vedremo altri testi del Decreto sulla giustificazione. E chiuderemo questo enorme capitolo sulla grazia.



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