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ORA DI DOTTRINA / 101 – La trascrizione

La crisi pelagiana – Il testo del video

Secondo il pelagianesimo, il peccato originale non causerebbe nessuna ferita “ereditata” nella natura dell’uomo; il quale sarebbe capace di seguire la legge divina senza l’aiuto della grazia. Errori condannati dalla Chiesa.

Catechismo 28_01_2024

Proseguiamo il nostro percorso sul peccato originale. Oggi ci concentriamo su quella che viene chiamata “la crisi pelagiana”, cioè quel periodo nella storia della Chiesa, all’inizio del V secolo, in cui inizia a diffondersi una predicazione e poi una vera e propria dottrina che mette fortemente in pericolo la concezione cattolica, rivelata, sul peccato originale e sulla necessità della grazia.

Il nome “pelagianesimo” viene da un monaco di origine britannica (qualcuno dice irlandese ma è più probabile appunto che sia di origine britannica), Pelagio; è vissuto per lungo tempo a Roma e si distingueva per una predicazione che qualcuno dice “rigorista”, ma non è propriamente corretto dire così, ma che certamente aveva una forte insistenza sulla libertà, che l’uomo avrebbe mantenuta integra, di scegliere il bene o il male. Ci torneremo, ma intanto anticipiamo il tema.

Questo monaco, Pelagio, ben presto acquisisce attorno a sé una cerchia di persone che lo supportano, lo seguono, che condividono la sua predicazione, tra cui un certo Celestio, importante, dopo vedremo perché. Quando ci fu la discesa dei Goti in Italia con Alarico, il famoso sacco di Roma del 410, Pelagio fu tra coloro che fuggì, e andò a Gerusalemme, dove venne accolto dal vescovo Giovanni.

La sua predicazione, che già suscitava più di un dubbio, fece raddrizzare le antenne a san Girolamo, che era vicinissimo a Gerusalemme: era a Betlemme, nel suo rifugio. È san Girolamo ad iniziare a porre più di qualche dubbio sull’impostazione di Pelagio. C’è un contatto tra san Girolamo e sant’Agostino, che nel frattempo era già venuto a conoscenza delle posizioni di Pelagio e di questo movimento che si stava diffondendo. E sarà poi sant’Agostino a svelare qual era la logica delle predicazioni di Pelagio e quali le conseguenze della impostazione sua e di alcuni suoi seguaci, tra cui appunto Celestio. Ci saranno alcune condanne di queste posizioni: la più importante fu quella del Concilio di Cartagine (418), dunque il concilio dei vescovi del Nordafrica, a cui presenziò sant’Agostino: il Concilio condannò alcune proposizioni riferite alla posizione di Pelagio, che nel frattempo era morto, e a quella di Celestio e a questo indirizzo di tipo ascetico-teologico.

In un primo momento, la posizione pelagiana poteva essere, per così dire, compresa, “scusata” come un’enfasi posta sull’importanza dell’impegno della persona nella vita ascetica. In Pelagio noi abbiamo fortemente l’insistenza sul fatto che l’uomo è libero e dunque sta all’uomo scegliere il bene o il male. Una posizione che, entro certi limiti, poteva anche passare. Senonché, questa enfasi inizierà ad avere una serie di problematiche un po’ più importanti. In sostanza, essendo l’anima trasmessa non per generazione, ma creata direttamente da Dio che la infonde nel nuovo concepito, avendo dunque l’anima la sua origine in Dio, secondo Pelagio essa non ereditava alcuna ferita: l’anima usciva dalle mani di Dio com’era uscita esattamente all’origine e com’era stata infusa in Adamo. Dunque, per Pelagio, nell’uomo restava integro non solo il libero arbitrio, ma anche quello che Agostino chiamerà, distanziandosi in questo da Pelagio, la libertas, cioè la libertà vera e propria. Non è semplicemente il fatto che l’uomo non ha perso il libero arbitrio, ossia quell’ultima capacità di dire “voglio” o “non voglio”; ma, per Pelagio, avrebbe integra la stessa libertas: in sostanza non subirebbe alcuna fragilità in questi suoi atti di decisione, li avrebbe integri, non sarebbe quindi colpito da quelle conseguenze del peccato originale che vedremo in modo sistematico, ma che abbiamo già accennato trattando lo stato originario (vedi qui, qui e qui); le conseguenze appunto di un disordine, di passioni che non sono più subordinate, non obbediscono più alla ragione. Quindi, per lui non ci sarebbe questa ferita.

E in Pelagio c’è anche una concezione molto limitata della grazia. Attenzione, nelle opere pelagiane si parla della grazia: ma che cosa si intende per “grazia”? Si intende anzitutto, questo è un termine ricorrente in Pelagio, «la grazia della creazione». Cioè, in sostanza, la grande grazia della creazione sarebbe che Dio ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza, quindi dotato di ragione e di piena libertà. Questa sarebbe la grazia fondamentale, una grazia rimasta integra. Secondo: la grazia della remissione dei peccati. Cioè, a coloro che peccano, che scelgono il male, che scelgono di disobbedire a Dio, è data la grazia della remissione dei peccati, tramite il battesimo e tramite la penitenza, che allora non era ancora la confessione come la intendiamo noi oggi, ma la sostanza è la penitenza che ottiene la remissione dei peccati da Dio. Terza grazia di cui Pelagio parla è la grazia della legge: cioè Dio ci dà la grazia di averci rivelato la Sua volontà, i Suoi comandamenti, la Sua legge. E dunque questa grazia dell’illuminazione, dell’insegnamento, della predicazione permette all’uomo di scegliere.

Ora, chiaramente non è sbagliato ritenere una grazia la creazione, in un certo senso; non è assolutamente sbagliato ritenere una grazia la remissione dei peccati e neanche ritenere una grazia la conoscenza della legge: tutte cose molto buone. Ma manca il concetto di grazia in senso più stretto, cioè quella che chiamiamo «la grazia abituale», cioè l’idea di una mozione interiore, appunto della grazia di Dio, con la quale Dio ci inclina in qualche modo verso il bene, ci attira verso il bene, ci spinge verso il bene, ci allontana dal male, ci risana. Anzi, nella visione pelagiana, questa grazia sarebbe da escludere, prima di tutto perché non serve: l’uomo è pienamente in possesso della sua facoltà di scegliere. Secondariamente, sarebbe un’indebita influenza di Dio che ha già creato, per grazia di creazione, l’uomo capace di prendere le sue decisioni.

Ora, è stato appunto sant’Agostino a mostrare che questa posizione comportava una serie di problemi molto grossi, soprattutto relativi alla dottrina del peccato originale e delle sue conseguenze. In sostanza, per Pelagio, l’uomo non ha subìto alcuna ferita nella propria natura, non ha avuto una diminutio della propria libertà; e quindi Pelagio non ha recepito quell’idea, in fondo, della schiavitù che è portata dal peccato e da quella tremenda ferita che noi sperimentiamo, come quando san Paolo dice «io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19).

Cioè, questa ferita in Pelagio non compare. Ovviamente questo che cosa vuol dire? Vuol dire che il peccato originale, secondo Pelagio, non ha avuto conseguenze, non è stato “ereditato”; nelle prossime lezioni gradualmente introdurremo le distinzioni e i termini corretti, intanto usiamo questo. Non è stato ereditato dalla discendenza di Adamo, ma è stato un peccato di Adamo. Punto. Va da sé che il battesimo, con questa concezione, che cosa diventa? Diventa sicuramente necessario per rimettere i peccati di coloro che li hanno commessi; ma per coloro che non li hanno commessi – su tutti, i bambini prima dell’età di ragione – il battesimo non viene amministrato “per la remissione dei peccati”. Invece, noi sappiamo che il battesimo è unico ed è sempre dato per la remissione dei peccati: quando non ci sono peccati personali, come nel caso dei bambini appena nati, è dato per la remissione del peccato originale. Questo in Pelagio era carente, non c’era alcun peccato originale, propriamente detto, da redimere.

Dunque, questo è per sommi capi il sistema che sant’Agostino tratteggia (parlando di Pelagio) e che stava prendendo piede in nome di una chiamata, anche giusta entro una certa dimensione, affinché l’uomo prendesse coscienza del fatto che ha ricevuto da Dio la capacità di scegliere. Ma, ripeto, veniva escluso che questa capacità, pur rimanendo un libero arbitrio, fosse profondamente ferita. Invece, sant’Agostino fa differenza tra il libero arbitrio che abbiamo e una libertà in senso pieno, data appunto da quell’integrità dello stato originario di cui abbiamo parlato e che non abbiamo più.

Adesso andiamo a vedere i canoni – ossia delle frasi, dei paragrafi con delle proposizioni che vengono condannate – del Concilio o più propriamente del Sinodo di Cartagine del 418.

Si tratta di nove canoni, per alcuni otto: noi teniamo per comodità la suddivisione che troviamo nell’Enchiridion symbolorum, il famoso Denzinger. Questi canoni del Concilio del 418 sono suddivisi in due grandi sezioni. I primi tre riguardano più propriamente alcuni aspetti della dottrina relativa al peccato originale, messi in dubbio, minati dalla posizione pelagiana; e gli altri cinque o sei, a seconda delle versioni, sono propriamente sulla grazia.

Il primo di questi canoni, che è il n. 222 del Denzinger, mette a tema la morte, che chiaramente per la dottrina cattolica è conseguenza del peccato. Ma ciò, più nella predicazione di Celestio, questo veniva messo in discussione: la morte non sarebbe entrata nel mondo con il peccato originale. Il canone dice: «Chiunque avrà detto che Adamo, il primo uomo, fu creato mortale, nel senso che sia che peccasse sia che non peccasse sarebbe corporalmente morto, avrebbe lasciato cioè il corpo non per causa del peccato ma per una necessità della natura, sia anatema» (Denz., 222).

Ricordiamo che abbiamo parlato del fatto che l’immortalità era un dono della natura integra, non perché il corpo sia incorruttibile in sé stesso, ma per una virtù dell’anima che Dio aveva comunicato ai nostri progenitori. Il tema, qui, è che affermare che Adamo sarebbe morto a prescindere dal peccato, cioè non come conseguenza del peccato, è anatema, cioè è condannato perché contrario alla fede.

Il secondo canone riguarda un tema delicato, importantissimo, che è quello della salvezza dei bambini, quindi la necessità del battesimo dei bambini e la salvezza dei bambini morti senza battesimo. Il secondo canone dice così: «Chiunque nega che si debbano battezzare i bambini in tempo attiguo al parto [cioè il più presto possibile, dalla nascita], o dice che essi vengono sì battezzati per la remissione dei peccati, ma non si traggono affatto dietro da Adamo il peccato originale che viene espiato dal lavacro della rigenerazione, da cui consegue che nel loro caso la forma del Battesimo in remissione dei peccati viene compresa non come vera ma come falsa, sia anatema».

Cioè, si mette in dubbio, come accennavo, che per i bambini, prima dell’età di ragione, si debba dare un battesimo per la remissione dei peccati. È interessante che il Concilio di Cartagine riporti il testo, su cui abbiamo insistito nell’incontro precedente, di Romani 5,12: «Per un solo uomo è entrato il peccato nel mondo e si è esteso a tutti gli uomini; in lui tutti hanno peccato». Un testo che, come avremo modo di vedere, è stato ripreso dal Concilio di Trento e, in entrambi i casi, questo testo viene chiaramente preso «nel senso in cui la Chiesa cattolica, ovunque diffusa, sempre lo ha inteso», cioè come testo a supporto della dottrina sul peccato originale e sulle sue conseguenze.

Il canone successivo, il n. 224 del Denzinger, che appunto per alcuni si fonderebbe con quello precedente, dice in sostanza che coloro che interpretano quella frase del Vangelo di Giovanni, al capitolo 14 – «nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2) –, «nel senso che nel Regno dei cieli ci sarà qualche luogo posto nel mezzo o un luogo altrove dove vivono come beati gli infanti che trapassarono da questa vita senza il battesimo, senza il quale non possono entrare nel Regno dei cieli, che è la vita eterna, sia anatema».

Attenzione: non è la dottrina del Limbo; il Limbo è un’altra cosa. Qui si sta dicendo invece che non si può sostenere che vi sia nel Regno dei cieli, dunque in Paradiso, un luogo nel quale possano accedere «gli infanti che trapassarono da questa vita senza il battesimo». In sostanza si afferma che il battesimo è necessario alla salvezza degli infanti. Questo è importantissimo. Non sto a dire la correlazione tra questo passaggio e la dottrina del Limbo e i dubbi legati alla dottrina sul Limbo (che non è dogma di fede); a noi interessa questo testo in riferimento alla crisi pelagiana. Ci dice in sostanza che per il pelagiano il battesimo non era dato in remissione dei peccati; non c’erano peccati da redimere nei bambini e dunque, non essendoci peccati da redimere, potevano andare in Cielo anche senza il battesimo. Questo pensiero è condannato.

Gli altri canoni sono quelli, come dicevamo, legati alla grazia. Questi canoni, come anche i precedenti, dovranno essere letti insieme ai decreti del Concilio di Trento, che si troverà invece con un altro problema, diametralmente opposto, come avremo modo di vedere.

Innanzitutto, il canone 3 dice che «chiunque avrà detto che la grazia di Dio […] serve solo per la remissione dei peccati che sono già stati commessi, non anche per l’aiuto a non commetterli, sia anatema». E qui si colpisce al cuore la concezione carente di Pelagio della necessità della grazia. Cioè, il Sinodo di Cartagine, che è stato recepito da papa Zosimo, quindi è a tutti gli effetti Magistero della Chiesa definitorio, essendovi dei canoni che intendono definire e condannare le proposizioni opposte, ci insegna che la grazia di Dio non serve solo per la remissione dei peccati (questo lo avrebbe sottoscritto anche Pelagio), ma anche come aiuto a non commetterne. E questo invece nei pelagiani non era accettato: per non commettere i peccati è sufficiente, per loro, il libero arbitrio, la libertà dell’uomo, non c’è bisogno dell’aiuto della grazia. Invece, la fede ci dice esattamente il contrario: la grazia è necessaria anche come aiuto per non commettere peccati; è necessaria e, come avremo modo di vedere, questa grazia rende effettivamente l’uomo capace di resistere al peccato, di evitare il peccato. Questo è importante per non cadere nella posizione di chi pensa che l’uomo non può evitare i peccati; no, l’uomo non può evitare il peccato senza la grazia; con la grazia questo è invece possibile.

Canone 4. È un canone che riassume un po’ quello che abbiamo detto. Cioè, per il pelagianesimo, questa grazia di Dio, che ci aiuterebbe a non peccare, al massimo può essere intesa come il fatto che Dio ci rivela che cosa è peccato e cosa no, ci dà la Sua legge; per Pelagio solo in questo senso si può dire che la grazia, come rivelazione della legge di Dio e dei comandamenti, ci aiuta a non peccare e non invece come grazia abituale, come mozione interna.

Leggiamo il canone 5: «Chiunque avrà detto che la grazia della giustificazione ci viene data per il motivo che quanto ci è comandato di fare mediante il libero arbitrio, per mezzo della grazia lo possiamo adempiere più facilmente, come se, non venendo elargita la grazia, potessimo tuttavia, anche senza di essa, pur non con facilità, adempiere i comandamenti divini, sia anatema». Di nuovo, la grazia non è solamente qualcosa che rende più facile ciò che l’uomo da solo potrebbe fare senza questa grazia; questa grazia è necessaria. La necessità della grazia richiama questa ferita profonda che il peccato originale ha provocato nell’uomo, nella libertà dell’uomo. Evidentemente non è la negazione del libero arbitrio e vedremo come la Chiesa reagirà di fronte a chi, in sostanza, dissolveva il libero arbitrio dell’uomo; ma è l’affermazione che la libertà dell’uomo non è più la libertà originaria, è profondamente ferita ed è dunque necessaria la grazia e non solo la conoscenza della legge di Dio, pur fondamentale. Attenzione a questo passaggio: non cade nel pelagianesimo chi afferma la legge di Dio, chi spiega la legge di Dio in tutta la sua necessità, chi esorta a seguire questa legge divina; il pelagianesimo è affermare che la grazia è solo questo, cioè che non c’è la necessità di una grazia abituale che sani in qualche modo l’uomo, che lo aiuti, lo sostenga per non peccare, per osservare questa legge.

Il canone 6, al n. 228 del Denzinger, riguarda l’affermazione che tutti in sostanza pecchiamo. «Riguardo al passo di san Giovanni apostolo [«se diciamo di non avere nessun peccato, inganniamo noi stessi» (1 Gv 1,8)] è stato deciso che se qualcuno avrà reputato di interpretarlo nel senso che per umiltà è necessario dire che abbiamo dei peccati ma non perché sia vero, sia anatema». Quindi, non è un modo di dire, non è un modo di vivere l’umiltà dire “io sono peccatore”: no, è la verità.

Il canone 7 e il canone 8 riguardano il significato da dare alla frase «Padre nostro… rimetti a noi i nostri debiti», che similmente a quanto abbiamo affermato per il canone 6 va inteso in modo proprio, cioè che realmente ciascuno di noi ha dei debiti da farsi rimettere da Dio.

Questo è un po’ il quadro, molto sintetico e rapido. Era importante dedicare almeno una lezione a questo aspetto perché vediamo come il dogma, l’espressione, la comprensione del dogma della fede si va precisando nella storia anche, di frequente, per “sollecitazione” di eresie, di errori che si diffondono. E dunque c’è tutto il processo – che richiede tempo, riflessione – di comprensione anzitutto dell’errore, che non sempre si manifesta in modo palese, anzi quasi mai; molto spesso è proprio l’insistenza su un bene o su più beni, dimenticandosi un’altra parte della verità. Da qui l’importanza di ricordarsi che il cattolicesimo non è mai la contrapposizione ad un errore di un altro errore, ad una visione parziale di un’altra visione parziale: non funziona così. La posizione cattolica è la posizione dell’et et, cioè tenere insieme due polarità che sembrano apparentemente in contraddizione, ma non lo sono. Riguardo al caso del pelagianesimo, non si tratta di negare il libero arbitrio per affermare la grazia, ma si tratta di affermare e il libero arbitrio e la necessità della grazia. E quindi di comporre poi nella spiegazione questi due elementi e capire perché stanno insieme, perché non sono contraddittori e perché illuminano i misteri della fede.

Questo è un piccolo inciso di metodo, importantissimo. Molto spesso la Chiesa si è trovata in queste situazioni tristi, dove a un errore se ne andava a contrapporre un altro, spesso con la lodevole intenzione di reagire al primo; ma bisogna stare molto attenti, anche prendersi del tempo nell’accogliere la guida del Magistero della Chiesa e farsi illuminare, capire che la Chiesa non ha scelto il compromesso di accontentare gli uni e gli altri, ma di tenere insieme due aspetti, due polarità entrambe vere. Mai è possibile combattere un errore concedendone un altro e dicendo “in fondo è stato fatto in buona fede perché c’era l’errore A al quale abbiamo contrapposto l’errore B”. Non si può, non si deve fare così.

La prossima volta proseguiamo con la nostra riflessione sul peccato originale.



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