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Ora di dottrina / 128 – La trascrizione

Il merito (II parte) – Il testo del video

La grazia è la radice delle azioni meritevoli. La grandezza del merito dipende dalla carità, per questo la Madonna ha dei meriti straordinari davanti a Dio. La differenza: meritare ex condigno e meritare de congruo.

Catechismo 08_09_2024

Come anticipato domenica scorsa, oggi facciamo la seconda parte del tema del merito. Siamo all’interno del trattato sulla grazia: san Tommaso vi dedica diverse questioni nella I-II della Somma Teologica. Stiamo commentando la quæstio 114. La scorsa volta abbiamo visto i primi tre articoli e abbiamo posto alcuni principi fondamentali relativi al senso cattolico del merito e, dunque, al rapporto tra il merito e la grazia. E abbiamo sciolto la grande obiezione di una presunta antitesi tra il merito e la grazia, come se affermare il merito equivalesse a far venire meno in qualche modo il principio della grazia.

San Tommaso invece ci ha aiutato a comprendere come sia proprio la grazia ad essere il principio del merito: la grazia santificante, la prima grazia che è chiaramente data da Dio senza alcun nostro merito, non rimane sterile nell’anima di una persona, ma diventa in essa, come ci dice il santo Vangelo, una sorgente d’acqua viva che «zampilla per la vita eterna», una sorgente di opere virtuose, opere buone, che quindi, per disposizione divina, meritano effettivamente la vita eterna. Se è chiaro questo, dovrebbe essere altrettanto chiaro il passaggio successivo, a cui san Tommaso dedica l’articolo 4.

Nell’art. 4, san Tommaso ci dice: la grazia è il principio del merito, è la radice in qualche modo delle azioni meritevoli; ma noi sappiamo che ad essere la forma di tutte le virtù, e quindi l’“anima” di tutte le azioni soprannaturalmente orientate, è la carità. A questa virtù teologale abbiamo dedicato alcune lezioni, a cui vi rimando. A noi adesso interessa sottolineare che la carità ha questa caratteristica: essere la forma di tutte le virtù, l’anima di tutte le virtù. Che cosa significa questo? Se è vero che la grazia è principio del merito, perché è principio delle azioni buone, virtuose – azioni soprannaturalmente virtuose –, questo significa che la carità diventa la condizione del merito. Se la grazia è il principio radicale, la carità è il principio prossimo. Come dice san Paolo, la fede «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).

Dunque, è la carità che vivifica, anima, dà forma agli atti meritevoli. La carità è la condizione del merito. Ed è anche la misura del merito.

Nella risposta alla terza obiezione dell’art. 4, san Tommaso precisa: «L’atto della fede non è meritorio se la fede non opera per mezzo della carità, come dice san Paolo [il riferimento è alla Lettera ai Galati 5,6]. E così pure non sono meritori gli atti della pazienza e della fortezza se non vengono compiuti sotto la mozione della carità, poiché sta scritto: “Se dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova”» (I-II, q. 114, a. 4). È il famoso capitolo, il famoso versetto delle lettere di san Paolo dedicato alla carità (1Cor. 13). Che cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Ne abbiamo già parlato, abbiamo dedicato degli articoli sulla Bussola a questo tema, ma è meglio richiamarlo un po’. Non sta dicendo che le altre virtù non contino, poiché il punto è che la carità non esiste senza o addirittura contro le altre virtù. Cioè, la carità è sempre la forma di una virtù. Queste virtù non sono meritevoli se non sono animate dalla carità. E la carità, proprio perché è la forma di queste virtù, le esige, le richiede, non se le fagocita, come se bastasse la carità e le altre virtù non servano, come qualche volta si dice: è un’assurdità, perché il senso della carità è proprio quello di essere la forma delle virtù.

In questa precisazione, san Tommaso ci dice una cosa importante e cioè che la “grandezza”, la misura del merito dipende dalla carità. Non dipende direttamente dalla virtù, non dipende dalla grandezza di un atto, di un’opera, criteri che invece noi, poveri esseri umani, tendiamo a considerare sempre come i più importanti. Secondo noi, infatti, merita di più una persona che ha fatto una grande cosa rispetto a una persona che non ha fatto niente di appariscente agli occhi degli uomini. Ma sarebbe sufficiente guardare la più alta in assoluto di tutte le creature umane uscite dalla mano di Dio, cioè la Vergine Santissima, per renderci conto che questo criterio non funziona. Non c’è una sola opera grandiosa che la Madonna abbia compiuto, almeno per quel che ci attestano i Vangeli ma anche un po’ per quel che ci attesta la tradizione ecclesiastica: non risulta che la Madonna abbia fondato ospedali, congregazioni religiose o quant’altro.

Perché allora la Madonna ha dei meriti straordinari davanti a Dio, potremmo dire quasi infiniti? Appunto per la misura della carità. Dunque, è la carità ad essere la misura del merito, non un atto in sé. Il cristianesimo non è la religione dell’eroismo o dell’altruismo o delle grandi opere, tutte cose assolutamente buone che nessuno mette in discussione, ma dal punto di vista del merito c’è un altro criterio, appunto quello della carità.

Detto questo, vediamo gli articoli che vanno dal 5° al 10°; sono come un elenco nel quale san Tommaso ci spiega che cosa possiamo meritare e che cosa non possiamo meritare. Posto che il merito è reale, non è fittizio, è legato alla giustizia – e abbiamo visto perché: è Dio stesso che ha posto questo ordine e ha posto la grazia come principio del merito, vi rimando all’Ora di dottrina di domenica scorsa –, vediamo che cosa l’uomo può effettivamente meritare e che cosa invece non può meritare.

Iniziamo dall’art. 5, che è fondamentale anche per la questione del rapporto merito-grazia. Nell’art. 5, san Tommaso si chiede se sia possibile meritare la prima grazia. Cosa vuol dire “prima grazia”? La grazia della conversione, la grazia della giustificazione. Abbiamo già visto che cos’è la giustificazione, cioè il passaggio da uno stato di ingiustizia ed empietà a uno stato di giustizia, con la grazia della remissione dei peccati.

San Tommaso risponde “no”, la prima grazia non può essere meritata. È interessante, perché questa affermazione ci dice subito che in san Tommaso è chiarissimo il primato della grazia, cioè non solo la grazia è principio del merito (per cui è impensabile il merito senza la grazia), ma anche la prima grazia non è frutto di merito. La prima grazia è frutto di un dono gratuito della misericordia divina. Dunque, è saldo, è chiarissimo il primato della grazia, ma questo – come abbiamo visto – non significa negare il merito.

Leggiamo la risposta che san Tommaso dà alla prima obiezione: «Se riteniamo, come siamo tenuti a credere, che l’inizio della fede deriva in noi da Dio, allora è chiaro che l’atto stesso della fede segue la prima grazia e non può meritarla. Perciò l’uomo è giustificato dalla fede, non nel senso che meriti la giustificazione col credere, ma per il fatto che crede mentre viene giustificato, poiché nella giustificazione dell’empio si richiede un atto di fede» (I-II, q. 114, a. 5). Principio fondamentale. La fede merita la giustificazione? “Ni”. In che senso? Non dobbiamo pensare che un atto di fede possa meritare la prima grazia, la giustificazione. Invece, come abbiamo visto nella catechesi sulla giustificazione, sappiamo che l’atto della giustificazione è diviso in quattro momenti o meglio in quattro elementi che sono contemporanei, e abbiamo anche visto che uno di questi è proprio la fede. Dunque, l’infusione della prima grazia porta con sé l’atto di fede. Allora, in questo senso, ci dice san Tommaso, l’atto di fede merita, «non nel senso che meriti la giustificazione col credere, ma per il fatto che crede mentre viene giustificato». Cioè, mentre viene giustificato, il peccatore diventa giusto, crede e questo atto di fede diventa meritorio. Ma non è meritorio della prima grazia, perché l’atto di fede è proprio parte della prima grazia. Dunque, la prima grazia non può essere meritata.

È interessante quello che san Tommaso spiega nell’art. 5. Se noi parliamo di un dono della grazia «sotto l’aspetto di dono gratuito», «da questo lato qualsiasi merito è incompatibile con la ragione di grazia, perché una cosa, come dice l’Apostolo, “se deriva dalle opere non è per grazia”» (ibidem). Se noi consideriamo la grazia come aspetto gratuito, è chiaro che, se è gratuito, non dipende dal merito: parliamo della prima grazia, la grazia della giustificazione. Aggiunge san Tommaso: «Secondo, [il dono della grazia] può essere considerato rispetto alla natura del dono stesso. E anche da questo lato la prima grazia non può essere meritata da chi non è in grazia, sia perché sorpassa la capacità della natura, sia perché prima della grazia, nello stato di colpa, l’uomo trova nel peccato un ostacolo a meritarla» (ibidem). In sostanza, la prima grazia non può essere meritata sia perché è grazia, perché è una grazia che sorpassa la natura e sia perché l’uomo, prima di essere giustificato, si trova nello stato di peccato. E dunque da nessuno dei due lati può essere meritata la prima grazia.

Nell’articolo seguente, san Tommaso si chiede se noi possiamo meritare per un altro la prima grazia. Non la possiamo meritare per noi, ma possiamo meritarla per qualcuno? E qui interviene una distinzione importantissima, decisiva per capire alcune questioni, ossia la distinzione tra la possibilità di meritare ex condigno e de congruo. Adesso spieghiamo bene questa distinzione.

Quando noi parliamo di meritare la grazia ex condigno, intendiamo “a rigore di giustizia”; ex condigno vuol dire questo, meritare qualcosa a rigore di giustizia: è il merito in senso stretto. Quando invece parliamo di meritare de congruo, intendiamo un merito “di convenienza”. Adesso cercheremo di spiegare questo aspetto. È un merito, come si può intuire, in senso lato, cioè non strettamente dovuto, che non rientra all’interno del “rigore di giustizia”. Ricordiamo la domanda: possiamo meritare la prima grazia per qualcun altro, posto che per noi non la possiamo meritare? San Tommaso ci dice che ex condigno, a rigore di giustizia, solo Gesù Cristo può meritare la prima grazia. E qui c’è un tesoro immenso: comprendiamo anche perché tutto quello che chiede la Chiesa, lo chiede sempre “per il nostro Signore Gesù Cristo”. Perché solo Cristo, in virtù della sua unione ipostatica e del suo essere Redentore, ha meritato per stretta giustizia di poter ottenere la prima grazia, non solo per qualcun altro, ma per tutti gli uomini, per ciascun uomo. Quindi, questa non può essere una prerogativa nostra, di una persona comune, ma è prerogativa di nostro Signore, in virtù del suo essere Redentore.

Tuttavia, spiega san Tommaso, «uno può meritare a un altro la prima grazia con un merito di convenienza [de congruo]. Infatti, dal momento che un uomo in grazia adempie la volontà di Dio, è conveniente, secondo i rapporti dell’amicizia di Dio, che Dio adempia la sua volontà salvando un altro, sebbene talora possa esserci un ostacolo dalla parte di colui la cui giustificazione è desiderata da qualche santo» (I-II, q. 114, a. 6). San Tommaso ci sta dicendo: per stretta giustizia noi non possiamo meritare la prima grazia per un altro, ma questo non vuol dire che non possiamo far niente. Noi possiamo meritare de congruo questa prima grazia. Cosa vuol dire de congruo? Vuol dire in virtù di quel rapporto di amicizia, di intimità con Dio, che un’anima in grazia, che cresce nella grazia, ha e acquisisce e fa crescere sempre di più. Dunque, è proprio in virtù di un’amicizia, e non di una stretta giustizia, che possiamo meritare questa prima grazia. In sostanza, qui c’è tutto il valore della preghiera del giusto. La preghiera del giusto, la preghiera di chi teme Dio ha una potenza enorme sul cuore di Dio, in particolare su nostro Signore Gesù Cristo, che è l’unico invece, come abbiamo visto, che può dare, ottenere, meritare la prima grazia, l’unico che ha meritato la prima grazia ex condigno.

Questa è un’importante distinzione che san Tommaso riassume con questa frase molto incisiva che troviamo nella risposta alla seconda obiezione: «L’impetrazione della preghiera si fonda sulla misericordia; il merito rigoroso, invece, si fonda sulla giustizia» (ibidem). Nel primo caso si ha il merito de congruo; nel secondo caso, per giustizia, il merito ex condigno.

Nell’art. 7 san Tommaso si pone un’altra domanda, cioè se uno possa meritare di risorgere dopo un peccato. Si tratta quindi della grazia della conversione, di rialzarsi dal peccato: uno lo può meritare? San Tommaso spiega che non lo possiamo meritare. «Nessuno può meritare a sé stesso il ravvedimento dopo una caduta futura, né a rigore di giustizia, né per una certa convenienza» (I-II, q. 114, a. 7). Né ex condigno, né de congruo. Perché? Non può meritare per giustizia, «perché il merito rigoroso dipende dalla mozione della grazia divina, mozione che viene a cessare col peccato successivo» (ibidem). Cioè, nel momento in cui si è nel peccato, manca il principio del merito. Ricordiamo che il principio del merito è la grazia. «Inoltre, il merito di convenienza, con cui si merita per altri la prima grazia, viene impedito dal raggiungere il suo effetto a motivo dell’ostacolo del peccato in colui per cui si vuole meritare» (ibidem). Anche in questo caso abbiamo la causa dell’ostacolo del peccato, per cui non c’è quel rapporto di amicizia in virtù del quale si può meritare de congruo, cioè si può meritare in senso lato, non per rigore di giustizia, ma in virtù di un’amicizia che si viene a creare con Dio. In entrambi i casi non è possibile meritare di risorgere dopo un peccato. Occorre un grande – l’ennesimo – dono gratuito divino.

Ecco perché, per esempio, non si può parlare di un “diritto al perdono”. Non c’è un diritto al perdono di fronte a Dio, proprio per la ragione già detta. Dio ci dà i mezzi per ottenerlo, ma non è qualche cosa che noi possiamo esigere per stretta giustizia e neanche per convenienza, ma si tratta di un dono che Dio dà. Gli stessi mezzi, per esempio il sacramento della Confessione, sono già il segno efficace della volontà di Dio di perdonarci, di farci risorgere dal peccato e di donarci, quindi, anche la contrizione. Va da sé che ci vuole sempre la collaborazione della persona. Dunque, per risorgere dal peccato non si può fare appello alla giustizia, ma si può e si deve fare appello alla misericordia divina.

Vediamo l’art. 8 e cioè se l’uomo possa meritare l’aumento della grazia o della carità. E qui la risposta, finalmente, è positiva: possiamo meritare l’aumento della grazia. Perché? Abbiamo visto che la grazia santificante è il principio del merito. Meritiamo che cosa? La vita eterna. Se la grazia è il principio del merito – questo è il punto chiave che abbiamo affermato la scorsa volta –, allora la grazia è il principio del merito anche di quel “percorso” che mi porta alla vita eterna. E quel percorso non è un sentiero come comunemente lo potremmo intendere, ma è un “percorso di grazia”, che passa dall’aumento della carità – si va di grazia in grazia – fino ad arrivare appunto a sfociare nella vita eterna. Dunque, da questo punto di vista, noi possiamo meritare l’aumento della grazia, perché questo aumento della grazia, questo aumento della carità è ciò che ci conduce alla vita eterna. Potremmo dire che il percorso è incluso nel prezzo del biglietto per la meta.

All’art. 9 san Tommaso si chiede se l’uomo possa meritare la perseveranza. Cosa vuol dire perseveranza? Se possa meritare di non peccare mai più, fino alla fine dei suoi giorni. San Tommaso ci dice “no”, perché il peccato è in potere del solo libero arbitrio, mentre abbiamo visto che la grazia entra come principio, come aspetto che ci accompagna, che ci sostiene, che porta a compimento i nostri atti; il peccato invece è qualche cosa che noi facciamo da soli, cioè Dio non interviene nel peccato. Ora, questo significa che propriamente parlando noi non possiamo meritare di non peccare. Quello che invece possiamo fare è domandare alla misericordia divina che ci tenga lontani dal peccato. Le grandi richieste che troviamo sulla bocca o sulla penna dei santi, richieste molto semplici come “la morte piuttosto che il peccato”, non sono solo un principio morale, ma proprio una preghiera, una supplica che possiamo e dobbiamo elevare in continuazione, ma non è qualche cosa che possiamo strettamente meritare.

Infatti san Tommaso, nella risposta alla prima obiezione, dice che «uno con la preghiera può impetrare da Dio, per sé medesimo e per altri, il dono della perseveranza, sebbene non possa meritarlo» (I-II, q. 114, a. 9). Dunque, di nuovo, non è qualcosa che possiamo meritare a rigore di giustizia o ex condigno.

L’art. 10, l’ultimo di questa densa quæstio, è se si possano meritare i beni temporali. Fino adesso abbiamo parlato della grazia, dell’aumento della grazia, della perseveranza, della prima grazia. Adesso san Tommaso dedica la questione ai beni temporali e si domanda: li possiamo meritare propriamente parlando? San Tommaso fa di nuovo una distinzione: se questi beni temporali sono utili e necessari all’aumento della grazia, cioè a quel percorso di cui abbiamo detto, allora sì, li possiamo meritare ex condigno. Perché? Per la stessa ragione che abbiamo visto prima quando abbiamo parlato della possibilità di meritare l’aumento della grazia. Cioè, se la grazia è principio di merito, possiamo meritare la vita eterna, possiamo meritare anche tutto il percorso e tutti i mezzi che ci servono per giungere alla vita eterna e, dunque, anche quei beni temporali, se sono necessari, per il compimento della volontà di Dio, che è la condizione per la vita eterna. In questo senso, sì, si possono meritare.

San Tommaso dice: «Dio concede ai giusti quel tanto di beni temporali e anche di mali [mali non morali ma temporali, cioè tutte quelle che sono le “noie” di questa vita: la malattia, la preoccupazione, il problema finanziario, ecc.] che giova ad essi per giungere alla vita eterna» (I-II, q. 114, a. 10). In questo senso, questi beni li possiamo meritare ex condigno. «Invece, se questi beni temporali vengono considerati in sé stessi, allora sono beni umani in senso non assoluto ma relativo, per cui sono oggetto non diretto ma solo indiretto del merito» (ibidem). Cioè, non si possono chiedere, non si possono meritare, ma si possono meritare de congruo. Si possono domandare nella preghiera, lasciando però chiaramente al buon Dio di concederceli o no, secondo la sua volontà che è sempre una volontà di bene.

È interessante che san Tommaso, nella risposta alla quarta obiezione (che poi è il sed contra), dica: «Tutto capita, ugualmente ai buoni e ai cattivi, quanto alla sostanza stessa dei beni o dei mali temporali» (ibidem). Cosa ci sta dicendo? Non è che un buono non avrà mai un male temporale. Una persona che vive in grazia di Dio non per questo è esentata dai mali, dai problemi di questa vita. E così, dall’altra parte, una persona che non è in grazia, non per questo non riceverà mai un bene temporale. Dio «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).

Aggiunge san Tommaso: «Non così però quanto al fine: poiché i buoni, da tali cose, vengono guidati alla beatitudine, a differenza dei cattivi» (ibidem). Qual è la grande differenza tra il buono e il cattivo? Tra chi vive nella grazia di Dio, si sforza di rimanervi, prega il Signore, e chi non lo fa, o addirittura fa esattamente l’opposto? Non è che a uno gli vanno meglio le cose e all’altro gli vanno peggio. Ma il primo, nei beni e nei mali di questo mondo, trova dei mezzi proprio per raggiungere il suo fine, cioè li vede come strumenti della misericordia di Dio per condurci alla vita eterna. Dove, invece, dall’altra parte, i beni vengono visti come fini a sé stessi e i mali come delle sventure contro le quali addirittura imprecare.

Concludiamo con le tre obiezioni principali che ci eravamo posti domenica scorsa. Abbiamo visto le tre classiche obiezioni al senso del merito: la prima è più di ordine filosofico, cioè che la purezza di un’etica richiederebbe più il bene per sé stesso che non in funzione del merito. Noi ora sappiamo che il merito è in realtà ciò che è preordinato da Dio, in modo tale che l’opera buona abbia un merito. E dunque, una morale “pura” deve essere integrata, corretta da questa idea, che anche sul piano naturale noi non possiamo escludere il merito. Perché? Perché è precisamente ciò che Dio ha preordinato come risultato, sanzione positiva di un atto buono.

L’altra obiezione è quella dell’amore puro: se io penso al merito, allora il mio amore verso Dio non è più disinteressato, ma è funzionale al merito. Anche in questo caso, sperare la ricompensa e sapere di poterla meritare, significa agire in conformità con quell’ordine che Dio stesso ha posto. È dunque una falsa opposizione quella tra un amore puro e l’amore “con il merito”, per così dire. Perché? Perché è proprio la carità – l’amore puro – ad essere principio e misura del merito. Dunque, è la carità che è principio del merito. Quanto più la carità cresce, è intensa ed è pura, tanto più essa esige il merito. Dunque, non si pone più una contrapposizione tra questi due aspetti.

Andiamo alla terza e ultima obiezione. La prossima domenica dedicheremo una catechesi a tutta la questione relativa al problema con il mondo protestante, ma intanto già dovrebbe essere chiaro: grazia versus merito? No, è proprio l’affermazione della sovranità della grazia, che san Tommaso ribadisce più volte, a fondare la realtà del merito. Ripeto: è l’affermazione della sovranità della grazia e del primato della grazia che fonda il merito. E dunque, in questo senso, svanisce qualsiasi possibile immaginato conflitto tra grazia e merito.

La prossima volta vedremo alcune di queste tematiche in rapporto alla crisi protestante e al Concilio di Trento.



Ora di dottrina / 128 – Il video

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