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100 ANNI DI CALVINO / 10

Il cavaliere inesistente e l’uomo «che c’è e non sa di esserci»

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Protagonista del romanzo Il cavaliere inesistente è Agilulfo, che è senz’altro un modello di soldato che funziona bene, il migliore, eppure è infelice. E c’è un personaggio dell’esercito che appare antitetico a lui: è Gurdulù...

Cultura 26_06_2023
ritaglio prima copertina italiana (Einaudi)

A raccontare le vicende de Il cavaliere inesistente è una donna che nell’ultimo capitolo saluta la storia («Libro, ora sei giunto alla fine») e confessa di essersi messa a scrivere senza interruzione, negli ultimi periodi, saltando «tra le nazioni e i mari e i continenti», presa da furia e impazienza «in attesa di qualcosa». La donna che racconta senza sosta è una suora: che cosa potrà mai attendere una religiosa che si è ritirata in convento, lontana dalle «sempre cangianti occasioni del mondo»? Cosa potrà mai attendere la narratrice se non vergare nuove pagine e ascoltare «i consueti rintocchi della campana del convento»? Raccontare storie non è facile, la narratrice lo sa bene e l’ha già confessato all’inizio del settimo capitolo: «A ognuna è data la sua penitenza, qui in convento, il suo modo di guadagnarsi la salvezza eterna. A me è toccata questa di scriver storie: è dura, è dura».

Questa confessione ha un forte sapore autobiografico, dal momento che Calvino ha spesso spiegato nelle interviste che la scrittura è per lui difficile, un sacrificio: «Ho molta difficoltà di parola, ma ho altrettanta difficoltà di scrittura. Non scrivo mai di getto. I miei manoscritti sono pieni di cancellature, di rimandi, di inserimenti […]. A me il pensiero si presenta sempre molto ingarbugliato» (intervista di Marco d’Erasmo, 1979).

La paura della suora è che il libro che sta scrivendo sia già cenere quando nasce, «più cenere degli atti sensuali là nel fiume, che trepidano di vita e si propagano come cerchi nell’acqua». Il dubbio è che la stessa scrittura possa essere «peccato, idolatria, superbia», che l’atto dello scrivere non cambi in meglio l’autore, ma gli faccia consumare in maniera incosciente la giovinezza, che non serva a salvarsi l’anima. Davvero il compito che c’è stato assegnato (il dovere, come è chiamato nel romanzo) è salvifico, ci compie nel nostro destino e ci rende lieti? Quella che è vergata nelle pagine è vita reale oppure la vera vita sta fuori dalle pagine, nel mondo?

I dilemmi della suora sono le stesse domande di Calvino, come sono i dubbi che da sempre hanno attraversato le menti di chi scrive e di chi crede con l’arte di dar spazio alla realtà avvicinandola a tutti attraverso il mezzo della penna e della parola. Chi è davvero questa suora? E quale sarà il suo destino? Lo scopriremo.

Ritorniamo all’inizio sotto le mura di Parigi dove Carlo Magno passa in rassegna il suo esercito. Ne incontra uno, dall’armatura tutta bianca, candida, «ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto». Si tratta di Agilulfo. Il cavaliere non mostra il viso al suo signore, perché lui non esiste. Incredulo, il re pretende che il cavaliere mostri il volto. Ne nasce un dialogo assai spiritoso:

- Mah, mah! Quante se ne vedono! - fece Carlomagno. - E com’è che fate a prestar servizio, se non ci siete?

- Con la forza di volontà, - disse Agilulfo, - e la fede nella nostra santa causa!

- E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che non esiste, siete in gamba!

Agilulfo è senz’altro un modello di soldato che funziona bene, ma risulta a tutti antipatico. Ottempera a tutte le sue funzioni, infligge punizioni, sgrida, ispeziona tutti i turni di corvè, spiega ai sottoposti come vadano compiute tutte le mansioni. Chiama ad uno ad uno i colleghi ufficiali «sottraendoli alle dolci conversazioni oziose della sera». Mentre tutti i soldati sono assopiti per il sonno, Agilulfo non dorme la notte, assorto com’è da ragionamenti «determinati ed esatti». Invidia la possibilità di perdere coscienza di sé propria di tutti coloro che esistono, anche se la sua è un’invidia «vaga, come di qualcosa che non si sa nemmeno concepire». Di notte gli altri cavalieri appaiono fuori dall’armatura, nella loro corporeità, con i loro difetti, mentre russano e schiacciano il volto sul cuscino. Non è possibile, invece, che Agilulfo sia scomposto in pezzi o smembrato, o che venga separato dalla sua armatura, la più bella di tutto l’esercito. Agilulfo è il migliore di tutti gli ufficiali, eppure è infelice. Ha la smania dell’efficienza, di tenere tutto sotto controllo, di trovare errori e negligenze nell’operato altrui. Agilulfo si attiene solo alle disposizioni.

Un giorno Rambaldo di Rossiglione, giovane che vuole vendicare la morte del padre morto in battaglia, incontra Agilulfo e si sorprende di quanto gli riferiscono al riguardo: «Dunque nell’esercito di Carlomagno si può esser cavaliere con tanto di nome e titoli e per di più prode combattente e zelante ufficiale, senza bisogno di esistere!».

Nei momenti in cui Agilulfo si sente venir meno, allora si mette a contare, ad ordinare; «l’applicarsi a queste esatte occupazioni» gli permette «di vincere il malessere, d’assorbire la scontentezza, l’inquietudine e il marasma, e di riprendere la lucidità e compostezza abituali». Ha «bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così» riesce «a mantenere una sicura coscienza di sé». «Lui solo, lì in mezzo,» racconta il narratore, ha «in mente l’ordine di marcia, le tappe, il luogo al quale» devono «arrivare avanti notte». Gli altri paladini pensano solo alle taverne e al divertimento.

Agilulfo è immune dalle sofferenze e dalle angosce proprie di chi esiste. Non presenta i «difetti di grossolanità, approssimazione, incoerenza, puzzo» propri degli uomini. Dinanzi al dolore altrui assume un atteggiamento protettivo e superiore. Con la sua inclinazione alla perfezione e all’efficienza Agilulfo suscita molto fascino nelle donne che spesso si innamorano di lui.

Un personaggio dell’esercito di Carlo Magno appare antitetico ad Agilulfo: è Gurdulù, che viene chiamato con nomi differenti a seconda dei luoghi. Un giorno si atteggia ad anatra, un altro è una pianta («con le braccia alzate tutte contorte, come rami, e nelle mani e in bocca e sulla testa e negli strappi del vestito» ha pere). Un vecchio ortolano lo definisce come: «uno che c’è ma non sa d’esserci». Gurdulù è privo di una coscienza, manca di consapevolezza di sé e della realtà, non ha un nome e per questo gliene vengono assegnati tanti.

Vedremo gli sviluppi della storia nella prossima puntata.