I surreali attacchi al merito, figli del Sessantotto
La nuova denominazione di alcuni ministeri da parte del Governo Meloni ha suscitato reazioni scomposte a sinistra. La parola che ha provocato più scandalo è stata “merito” (aggiunta a “istruzione”), invisa all'establishment progressista erede del Sessantotto. Ma anche la Costituzione parla di merito, che è la base della vera uguaglianza sociale.
È veramente incredibile come in Italia esistano parole letteralmente tabù, e il solo fatto che qualcuno le pronunci nel dibattito pubblico suscita in larga parte del mondo politico e mediatico lo stesso effetto generato dall'aglio sui vampiri: reazioni scomposte, convulsioni, veri e propri deliri.
È il caso di alcuni termini introdotti dal governo presieduto da Giorgia Meloni nella nuova denominazione di alcuni ministeri: parole che indicano obiettivi dell'azione del prossimo esecutivo in relazione a problemi la cui esistenza sarebbe impossibile negare, e la cui semplice menzione, tuttavia, viene considerata scandalosa, se non “blasfema” dall'establishment progressista - o woke “alle vongole” - saldamente incistato nel nostro Paese nei luoghi che contano della cultura di massa. In genere con effetti grotteschi e involontariamente comici, e mantenendo la disputa su un terreno del tutto nominalistico, senza considerare minimamente gli aspetti concreti delle questioni a cui quei termini si riferiscono.
È stato il caso della dizione “sovranità alimentare” aggiunta al nome del Ministero dell'agricoltura: immediatamente bollata da una falange di critici di sinistra come indice di “autarchia” e isolazionismo, quando invece si tratta di una consolidata strategia di difesa dei prodotti tipici contro le contraffazioni, lanciata proprio da ambienti culturali di sinistra come la galassia Slow Food. O della “natalità” aggiunta al nome del Ministero della famiglia (lemma già tradizionalmente mal digerito da quell'establishment) e delle pari opportunità: natalità rifiutata a priori, nonostante la gravità dell'“inverno demografico” da tempo in corso nel Paese, da una sinistra che sembra considerare ogni tentativo di incoraggiare maternità e paternità, chissà perché, come un insulto ai “diritti” soggettivi, in una spirale mortifera che ormai ne definisce per molti aspetti l'essenza.
Ma la parola che in quel mainstream politico-culturale ha provocato più scandalo è stata indubbiamente quella aggiunta alla titolazione del Ministero dell'Istruzione: “merito”. Un'aggiunta sicuramente significativa, ma che in una società liberaldemocratica non dovrebbe far inorridire nessuno, e anzi dovrebbe suscitare una naturale convergenza. Nessuna persona sensata infatti, in una riflessione sgombra da preconcetti, potrebbe negare che sia preferibile avere nei ruoli dirigenziali, professionali, scientifici più delicati persone competenti, preparate, giunte alla loro carica grazie alle loro doti, al loro impegno, al loro studio, e non grazie a favoritismi o a caso. E peraltro il principio secondo cui è doveroso incoraggiare e premiare i meritevoli è inequivocabilmente enunciato nella Costituzione della Repubblica, nell'articolo 34, dove, dopo aver dichiarato il libero accesso all'istruzione per tutti, l'obbligo scolastico e la sua gratuità, si aggiunge: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze». Insomma, uno dei fondamenti della convivenza repubblicana - condiviso all'epoca dalle diverse famiglie politiche presenti nell'Assemblea costituente - è proprio quello secondo cui le élite si devono formare non per oligarchico privilegio di classe, ma, appunto, in base ai meriti personali.
Eppure, assurdamente, oggi chi si dichiara “di sinistra”, appena sente la parola “merito”, tende a reagire con un moto di repulsione, additando quel principio - e insieme a esso quelli logicamente connessi di competizione e selezione - come esattamente il contrario di ciò che significa: cioè proprio come la volontà di discriminare le persone, nel sistema formativo e nella società, favorendo il perpetuarsi di disuguaglianze di classe.
Ora, se il richiamo alla selezione e alla competizione fosse privo di un riferimento al merito personale tale ragionamento potrebbe avere un fondo di verità: operare a scuola e all'università una selezione che rispecchi la geografia sociale attuale, senza dare a chi proviene da famiglie meno abbienti e istruite gli strumenti per un'ascesa sociale ottenuta con lo studio, sarebbe classista. Ma non è questo che intende la Carta, né è con questo spirito che il sistema formativo repubblicano era stato pensato. E comunque il principio del premio al merito funge, appunto, da correttore dei privilegi di classe, non da strumento di essi. Cosa è accaduto in questi decenni, per formare una così distorta, ma così radicata visione negativa di quel principio?
È successo che a un certo punto è arrivato il Sessantotto, e la cultura della sinistra italiana è passata, nel giro di pochi anni, dalla severa, ultraselettiva concezione dello studio propugnata da Antonio Gramsci a un rifiuto generalizzato di ogni gerarchia, di ogni giudizio, di ogni competizione, sia pur fondata sulle capacità effettive, sostituita da un vittimistico egualitarismo assoluto, un “vietato vietare” secondo cui sono lo sforzo, il lavoro, la responsabilità in sé a essere valori “borghesi”, quindi disprezzabili. Un sentimento alla base delle rovinose stagioni del “sei (o diciotto) politico” - magari giustificate dai richiami a don Lorenzo Milani, che regolarmente hanno frainteso e travisato il suo pensiero - , della demonizzazione del giudizio in quanto tale e dell'apprendimento dei contenuti come “nozionismo”, della trasformazione del sistema scolastico e formativo italiano in una melassa di “educazione alla cittadinanza”, ovviamente “inclusiva”, popolato da studenti sempre più de-alfabetizzati, ormai precipitati a livelli infimi nella conoscenza di tutte le discipline fondamentali. E che ha provocato esattamente il risultato opposto a quello che i suoi aedi proclamavano: la perpetuazione dei privilegi di classe. Perché in un sistema formativo in cui il livello medio si abbassa uniformemente, chi ha alle spalle famiglie e reti sociali che lo favoriscono continuerà a far carriera lo stesso, a differenza di chi è privo di mezzi e alla scuola e all'università chiedeva i contenuti per farsi strada autonomamente nella società.
Più di mezzo secolo dopo, il mainstream progressista in Italia continua a essere prigioniero di quei luoghi comuni, a ripetere quelle formule ideologiche il cui trionfo ha portato il Paese verso una decadenza sempre più inarrestabile, seguendo una perversa coazione a ripetere nichilista e distruttiva.