I soldati armeni che cantano in guerra hanno già vinto
Abbiamo raccontato come i soldati del Nagorno-Karaback stanno combattendo mostrando il valore di una virilità che il nichilismo ha buttato via. Ma vale la pena vederlo con i propri occhi attraverso un video. Un gruppo di giovani si prepara a difendere dagli Azeri la propria terra e mentre lo fa canta parlando di patria, nemico, morte, sofferenza: i vocaboli proibiti dell'Occidente disperato.
Abbiamo raccontato quello che sta accadendo in Armenia, il conflitto atroce su cui il mondo occidentale tace per convenienza. Abbiamo raccontato come i soldati del Nagorno-Karabackh (un tempo ceduta da Stalin all’Azerbaijan ma divenuta indipendente dopo la caduta dell’Urss) stanno combattendo mostrando il grande valore di una virilità che l’Occidente ateo ha buttato via. Ma vale la pena vederlo con i propri occhi attraverso un video. Un gruppo di giovani in un bosco si prepara a difendere dagli Azeri la propria terra e mentre lo fa canta. Un di loro intona una canzone armena mentre i compagni la ascoltano in silenzio.
“Le ferite di una terra colpita alludono ad un posto dove c’è una guerra continua….un giovane soldato scrive nostalgicamente una lettera che include le memorie della sua terra paterna...non piangere madre, aspettami, tornerò…”. A questo punto della canzone un compagno si copre il viso con le mani e piange. “Ti amo caramente - continua il soldato - mi manchi madre, ricordo le tue parole: ‘Ama la terra armena’. Sì, ricordo le tue lacrime quando parlavi del genocidio, sì ricordo la mia terra paterna, i nostri alberi di pioppo antichi in giardino, il rumore del ruscello, dove facevo i miei giochi di bambino...il giovane soldato balza in avanti stringendo i denti, è breve la distanza dalla linea di contatto dove il nemico sta facendo irruzione nella terra armena, ma quanto sono brevi quei passi pacifici rispetto agli infiniti passi necessari per difendere l’esistenza armena...proprio mentre si pensa che l'avanzata del nemico sia stata arrestata, (il soldato) viene colpito da uno sparo, stringe nelle mani la lettera aperta e forata, caduta sotto il cielo aperto e azzurro. Guardò il cielo azzurro soffermandosi sui ricordi della sua casa paterna e del pioppo invecchiato sotto il quale sua madre attende la lettera...il tramonto si avvicina, la valle sperimenta un silenzio innocente, la discendenza gravemente ferita della terra armena giace gravemente ferita. In attesa della morte imminente. Oh se solo potessi volare a casa”.
E’ tutta qui la coscienza di un popolo che non si pensava esistesse più. Un popolo che pare sbucare fuori da un passato che si credeva ormai finito. In un mondo anche credente assuefatto al bombardamento nichilista, con un pensiero maggioritario nella Chiesa che lo asseconda, siamo abituati a vergognarci nel parlare di amore alla patria, a cui segue l'accusa di far parte dell'estremismo di destra. In un mondo cristiano che spesso teme la morte esattamente come chi non ha fede, in un mondo che non sa più se c’è qualcosa per cui vale la pena spendersi, dove i giovani vivono la depressione del nonsenso e in cui si chiede l’eutanasia per fuggire dalla vita (come ha fatto il ministro cristiano Hugo de Jonge), la testimonianza cristiana dell’Armenia che risponde agli attacchi turco-azeri ha una luce particolare: parla di giovani capaci di dare la vita che amano perché ne conoscono il senso che la trascende, motivo per cui si può ultimamente non temere la morte e quindi affrontarla a testa alta.
Nel video infatti, i soldati cantano preparandosi alla guerra. Cantano per ricordarsi perché bisogna resistere e da chi ci si sta difendendo: nemico lo chiamano, quel nemico che noi occidentali preferiamo utopicamente pensare che non esista. In questa immagine dei soldati in canto c’è l'esempio di un popolo unito che ci ricorda le menzogna e ci fa comprendere cosa significa conoscere la propria storia ed essere educati dalla famiglia e dalla Chiesa (i sacerdoti sono al fianco dei soldati, come si vede in queste immagini incredibili) ad amarla e a lottare per essa.
Si capisce così come sia possibile che nei giorni scorsi sia accaduto un fatto che è sulla bocca di molti: un autista di Yerevan ha deciso di pagare la corsa sul bus a tutti i passeggeri diretti al lavoro, saltando le fermate per portarli in chiesa: “All’inizio non capivamo cosa stesse facendo”, ha raccontato una donna. Poi ci ha detto: “Scendete qui. Non pagate il biglietto, con i soldi comprate una candela e preghiamo inginocchiati per i nostri figli. Voi siete in ritardo per il lavoro, anche mio figlio sta ritardando...sta ritardando per tornare a casa, invece mi ha promesso di ritornare...Mio figlio sta combattendo in prima linea al fronte. Non lo sento ormai da alcuni giorni, non so come sta ...”. Tutti erano muti, ha raccontato la testimone, “sono scesi e sono andati in direzione della chiesa. Alla fine l’autista ha aggiunto: ‘Figlia mia, tutti i giorni cerco il nome di mio figlio nella lista dei caduti in battaglia’...Oh, Dio mio, ti invoco con tutto il cuore, custodisci i nostri coraggiosi soldati e fa che i genitori non soffrano aspettando il ritorno dei propri figli”.
Quei figli che, come il violoncellista di fama internazionale Sevak Avanesyan, rimanendo nella sua terra natale ha suonato in mezzo alle macerie della bellissima cattedrale di Ghazanchetsots a Shushi distrutta dagli azeri con due bombardamenti consecutivi. Esprimendo con dolore che la speranza vive nel cuore di un popolo che sa a chi appartiene.