I rifugiati birmani in Bangladesh non vogliono tornare nel Myanmar
Da quando è stato avviato il programma di rimpatrio volontario dei rohingya, concordato dai governi dei due paesi, hanno accettato di tornare in patria meno di 500 persone su oltre un milione
I musulmani rohingya rifugiati in Bangladesh da oltre due anni continuano a rifiutare di tornare a casa, in Myanmar. Sono oltre un milione le persone ospitate nei campi del distretto di Cox’s Bazar e finora meno di 500 hanno approfittato del programma di “rimpatrio volontario, sicuro e dignitoso” concordato dai governi dei due paesi nel novembre del 2017, ma inaugurato solo nell’autunno del 2018, con dieci mesi di ritardo rispetto alle previsioni. Nella terza settimana di ottobre ne sono partite solo 29. Molti rifugiati non hanno una casa a cui tornare e temono di non trovare reali condizioni di sicurezza. Da tempo inoltre si sospetta che leader rohingya e organizzazioni non governative attive nei campi sconsiglino ai rifugiati il rimpatrio per motivi di interesse. Il 25 ottobre il ministro birmano della previdenza sociale, dei soccorsi e del re insediamento, Win Myat Aye, ha assicurato che da tempo sono stati ultimati i preparativi per ricevere i rifugiati di ritorno. Il governo ha provveduto alla costruzione di “villaggi modello” ciascuno dei quali dotato di un mercato, una scuola, un parco pubblico e un ambulatorio. Ma questo e altre rassicurazioni non sono valse a convincere i profughi. A settembre il primo ministro Sheikh Hasina del Bangladesh aveva dichiarato che i rohingya ormai sono un peso per il paese, vissuto con sempre maggiore insofferenza dalla popolazione locale che ne paga le conseguenze. Con i rifugiati sono aumentati i reati: rapine, omicidi, sfruttamento della prostituzione, traffico di droga… Inoltre c’è timore per il numero crescente di rifugiati che aderiscono alla militanza islamista.