I casi Cohen e Manafort non sono da impeachment
Due colpi all'amministrazione Trump? Manafort condannato per frode fiscale ed era a capo della campagna elettorale di Trump. Poi Cohen che dichiara di aver pagato la pornoattrice Stormy Daniels e la coniglietta Karen McDougal per comprare il loro silenzio "per conto di un candidato". Ma in entrambi i casi Trump c'entra solo indirettamente ed è ancora tutto da dimostrare.
In Virginia, Paul Manafort è stato giudicato colpevole di otto capi di imputazione, di cui cinque per frode fiscale. Non farebbe grande clamore se non fosse che da marzo ad agosto 2016 Manafort è stato il direttore della campagna elettorale di Donald J. Trump per le presidenziali e quindi - per una proprietà transitiva applicata alla carlona dai media mondiali tanto per tirare l’acqua al proprio mulino - il corrotto deve per forza essere Trump in persona. Ma la notizia è fatta per strombazzarci solo i titoli dei giornali, quelli che proverbialmente la gente legge per “informarsi” tralasciando tutto il resto.
Se infatti si andasse oltre il sensazionalismo, si scoprirebbe che il castello di carte non regge per due motivi (ed è pure vecchio). Il primo è lapalissiano: il condannato per frode fiscale è Manafort, non Trump. Trump non è mai stato, nemmeno lontanamente, socio in affari di Manafort, quindi con la sua frode fiscale non c’entra proprio nulla. C’è da vergognarsi a fare ragionamenti così elementari, ma tant’è.
Tutta la vicenda è peraltro parecchio strana. Inizialmente Manafort, e il suo socio Rick Gates (non Trump), sono stati accusati anche di riciclaggio, addirittura di cospirazione. Ma l’accusa poteva reggere solo se i due avessero guadagnato denaro illecitamente, cose che invece non era, motivo per cui l’accusa di riciclaggio e di cospirazione è in seguito sparita dai capi d’imputazione contestati a Manafort e a Gates. A Manafort è rimasta appunto solo la frode fiscale. Cosa c’entra Trump con essa? Appunto nulla. Ma siccome la frode fiscale Manafort l’avrebbe ordita trafficando, peraltro in maniera del tutto lecita, con lobbisti ucraini filorussi, ecco che essa sarebbe la prova provata del famoso “Russiagate”. Per questo, si dice, Trump avrebbe voluto Manafort a dirigere la propria campagna elettorale.
Ci si dimentica però di aggiungere che Trump, Manafort, lo ha pure licenziato. Ora, se davvero Trump avesse chiesto o comunque accettato aiuti illeciti da Mosca durante la campagna elettorale del 2016, e se Manafort fosse stato sul serio, come si cerca di far credere a posteriori, l’uomo chiave di questa collusione da “altro tradimento”, perché mai Trump avrebbe dovuto tirare il collo alla gallina dalle uova d’oro? Adesso la giustizia farà il proprio corso, ma agli atti ci sono solo due cose chiarissime: da un lato Manafort ha frodato il fisco, dall’altro (e le due cose non stanno assieme) di collusioni russe di Trump non vi è nemmeno l’ombra.
Dato a Trump quel che è di Trump, occorre però sottolineare che se durante il famoso vertice avuto con Vladimir Putin a Helsinki a metà luglio il presidente degli Stati Uniti avesse speso una mezza parolina sul falso mito del “Russiagate” avrebbe vinto un terno al lotto. Invece si è perso tra i condizionali e ha fatto la figura del frescone. Non ha certamente offerto il minimo appiglio a chi lo accusa di collusioni con il Cremlino, ma altrettanto certamente ha perso una occasione irripetibile per convincere del contrario.
Esattamente come sta accadendo con la seconda magagna del giorno, quella relativa ai soldi che avrebbe versato, sempre in campagna elettorale, alla pornoattrice Stormy Daniels e all’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal, con cui avrebbe avuto rapporti sessuali anni fa, per comperarne il silenzio. A New York, infatti, Michael Cohen, ex avvocato di Trump quando Trump non era ancora il presidente del Paese più importante del mondo, si è dichiarato colpevole di otto capi d’accusa fra cui appunto l’avere pagato le due donne «in coordinamento e sotto la direzione di un candidato a un incarico federale». Ora, l’ammissione è pesante. Però: a) va provata, b) occorre identificare con certezza il «candidato a un incarico federale» che avrebbe complottato con lui e c) bisogna capire come questa storia lurida centri con Trump. Per farlo va stabilito al di là di ogni ragionevole dubbio che l’ignoto «candidato a un incarico federale» sia senz’altro Trump, che i soldi sborsati siano i suoi, che le due donne i soldi li abbiano presi salvo poi tradire il patto e spifferare tutto, e soprattutto che questo centri con la presidenza.
Se Trump ha avuto rapporti sessuali extraconiugali è una cosa brutta per coloro che ritengono che avere rapporti extraconiugali sia una cosa brutta, ma, a rigore, a tutti gli altri non dovrebbe interessare nulla. Ma coloro che ritengono che avere rapporti extraconiugali sia una cosa brutta sanno benissimo che i rapporti extraconiugali non c’entrano di per sé nulla con la capacità di governare per il bene, mentre a tutti gli altri la cosa dovrebbe interessare soltanto se in qualche modo inficiasse appunto la capacità di governare bene. Il paragone con il caso di Monica Lewinsky torna utile proprio perché diversissimo. Oggi Trump è accusato di rapporti sessuali extraconiugali risalenti a molti anni prima del suo arrivo alla Casa Bianca, mentre a suo tempo Bill Clinton giurò che i rapporti sessuali avuti alla Casa Bianca con una stagista non erano mai avvenuti. Giurò cioè il falso in pubblico e questo minò la sua credibilità di leader politico non presso chi ritiene che avere rapporti extraconiugali sia una cosa brutta, ma presso tutti coloro che ritengono che un presidente che mente non sia l’uomo migliore per governare bene un Paese. Ma dalla Casa Bianca non se n’è andato. Perché mai dovrebbe allora andarsene Trump, che se per caso assomiglia un po’ a Clinton sulle prodezze sessuali ne è invece fortunatamente distante da lui mille anni luce quanto alla gestione della cosa pubblica americana? Il primo a dovere imparare a usare questo argomento (mentre si cerca un confessore) è proprio Trump.