Gorbaciov, il liquidatore gentile dell'impero rosso
La morte di Mikhail Gorbaciov avviene proprio in un momento di rinnovata guerra fredda. Fu lui, assieme al rivale e interlocutore Reagan, a porre fine al confronto fra Mosca e Washington nel 1989. Non comprendendo l'irriformabilità del sistema comunista, perse tutto. Gli eventi nefasti successivi tuttavia non sono colpa sua.
- SIMBOLO DEL COMUNISMO VERDE di Alessandra Nucci
Accade talvolta che la morte di un personaggio storico da lungo tempo lontano dalla ribalta avvenga in un momento che sembra scelto dal destino per enfatizzare il contrasto tra l'epoca della sua azione e quella presente, e lanciare in qualche modo un messaggio al mondo di oggi.
E' proprio una sensazione del genere quella che ci assale nell'apprendere della scomparsa di Michail Gorbaciov, ultimo segretario del Partito comunista dell'Unione Sovietica e artefice, insieme ai presidenti statunitensi Ronald Reagan e George Bush sr., della conclusione della guerra fredda. Non potrebbe essere, infatti, più evidente la differenza tra il contesto storico dei secondi anni Ottanta e quello che stiamo vivendo in questi tormentati anni Venti del XXI secolo. Allora, assistevamo quasi increduli alla rapida caduta delle barriere tra le due superpotenze mondiali a lungo contrapposte nell'”equilibrio del terrore”, all'altrettanto rapido smantellamento della corsa agli armamenti nucleari, alla liberalizzazione di un regime che credevamo monolitico. Oggi, al contrario, ci troviamo nel mezzo di un conflitto sanguinoso nel cuore dell'Europa tra uno Stato ex sovietico sostenuto toto corde dall'Occidente e la Russia, tornata a essere per quest'ultimo un nemico pressoché totale. Un conflitto che minaccia ulteriori, rovinose escalation, e che già oggi produce effetti rovinosi sull'economia dei paesi del vecchio Continente, prefigurando lo spettro di un futuro di razionamenti di materi prime, recessione, impoverimento.
"Che cosa è andato storto?" sembra chiederci silenziosamente Gorbaciov nel giorno della sua dipartita. Perché negli ultimi trent'anni la storia mondiale non si è evoluta verso una globalizzazione pacifica e prospera, ma è sfociata in nuove contrapposizioni tra blocchi politici e militari, e in particolare su una polarizzazione apparentemente irriducibile tra Washington e Mosca? E che ruolo ha avuto l'opera di Gorbaciov stesso in tale deriva?
Per comprenderlo, occorre riportare la figura dell'ultimo leader sovietico al contesto concreto in cui egli a suo tempo ha operato, alla sua formazione culturale e psicologica, alle sfide che aveva davanti, alle scelte effettive che gli si prospettavano. Nato nel 1931 in una provincia rurale tra Caucaso e Mar Nero, Gorbaciov faceva parte della generazione di membri del Pcus cresciuta politicamente già dopo la morte di Stalin, e istintivamente portata a contrapporsi alla gerontocrazia “ibernata” alla guida del regime dalla svolta conservatrice di Breznev. La sua carriera venne fortemente favorita, oltre che dalle sue brillanti doti culturali e comunicative, dal rapido declino economico e politico dell'Urss tra anni Settanta e Ottanta, in contrasto con la rinascita americana e occidentale dopo la grande crisi post-1973. La sua nomina a segretario del partito ad “appena” 54 anni di età nel 1985 fu un gesto disperato di quel gruppo dirigente per scongiurare il collasso del regime, percepito come ormai imminente, mediante un'apertura inattesa verso il grande nemico ideologico, con l'obiettivo di fermare una corsa agli armamenti che i sovietici non potevano più permettersi.
Gorbaciov, dal canto suo, era sinceramente convinto che il regime comunista potesse essere salvato attraverso riforme economiche e politiche profonde, integrandolo con prassi di governo ispirate alla democrazia europea (soprattutto quella tedesca e scandinava), trasformandolo in una socialdemocrazia e in un'”economia mista”. Fiducioso nella praticabilità di questo obiettivo, egli superò d'un colpo il riformismo di Khruscev introducendo in Urss una pressoché integrale libertà di parola e stampa (glasnost) e una moderata, poi sempre più accelerata, introduzione del mercato (perestrojka). Ma, soprattutto, egli trovò un interlocutore sensibile e affidabile nel leader “nemico”, il presidente statunitense Ronald Reagan. Quest'ultimo, che aveva improntato il suo mandato a una linea intransigente di politica internazionale volta a mettere l'Urss con le spalle al muro, diede però credito quasi subito alla strategia del dialogo portata avanti dal nuovo capo del Cremlino. Anche la relazione di fiducia personale stabilitasi tra Reagan e Gorbaciov fece sì che in tre anni, attraverso una serie serrata di vertici diplomatici, le due superpotenze archiviassero praticamente le ragioni di contrapposizione militare, aprendo cautamente ad un futuro di collaborazione. Gli eventi del 1989, con la repentina dissoluzione della “cortina di ferro”, furono la diretta conseguenza del quadro di apertura delineato dai due leader. E, segnatamente, della non facile scelta compiuta da Gorbaciov di impedire ai regimi dei “paesi satelliti” ogni repressione violenta dei movimenti popolari in favore della democratizzazione.
Tuttavia, la pur coraggiosa strategia di Gorbaciov era destinata a fallire, perché partiva da premesse irrealistiche. Egli voleva salvare il regime comunista democratizzandolo, quando tutta la storia del comunismo, come delle altre forme di dittatura novecentesche, mostra l'incompatibilità insuperabile tra i princìpi totalitari e quelli liberaldemocratici del potere limitato e della sovranità del diritto. Voleva salvare l'Unione Sovietica, ma quest'ultima era un edificio politico creato dal comunismo, che con il declino e la fine dell'utopia totalitaria sarebbe inevitabilmente franato. Il superamento della dittatura non poteva avvenire che attraverso la dissoluzione dell'Unione, il ritorno agli Stati nazionali, il prepotente ritorno del ruolo politico della religione: perché l'appartenenza nazionale e di civiltà era l'unica base solida di legittimazione politica una volta archiviata quella ideologica.
L'incomprensione di questi elementi condusse al rapido declino della leasdership gorbacioviana tra il 1989 e il 1991, all'affermazione del nazionalismo russo attraverso l'ascesa di Boris Eltsin, alle dimissioni del leader sovietico dopo il per lui umiliante, ma fallito golpe militare dei nostalgici brezneviani dell'agosto 1991, alla fine dell'Urss.
Gli eventi successivi - dai conflitti etnici al caos della transizione al mercato sotto Eltsin, fino alla restaurazione nazional-centralista e neo-imperialista di Vladimir Putin – non possono essere addebitati all'azione di Gorbaciov: sarebbero accaduti anche senza di lui, perché conseguenze logiche della fine del più violento regime totalitario della storia. La parentesi gorbacioviana permise, anzi, di attutire le conseguenze catastrofiche di quel crollo, di dare tempo alla transizione, di evitare che provocasse conseguenze apocalittiche per l'Occidente e per tutta l'umanità.
Soprattutto, la sua vicenda tormentata ci ricorda quanto avremmo bisogno oggi di leader mondiali che – come lui e Reagan – fossero capaci di andare oltre lo status quo, di scommettere sul dialogo, sul compromesso onorevole, piuttosto che sulla criminalizzazione dell'avversario, di delineare un quadro complessivo di convivenza tra potenze, popoli, civiltà diversi.