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Gli abusi minano la credibilità dei "padri sinodali" tedeschi

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Tre vescovi, tra cui il card. Marx, ammettono di aver gestito male i casi di violenza a opera di chierici nelle rispettive diocesi fino a rimettere il proprio mandato. Tutti e tre figure di spicco di quel Synodaler Weg su cui la loro fallimentare condotta dovrebbe porre qualche interrogativo.

Ecclesia 12_04_2023

L'idea di un cammino sinodale della Chiesa tedesca risale a quattro anni fa e si è concretizzato a Lingen nell'assemblea plenaria della Conferenza episcopale. Quest'iniziativa è stata motivata con la necessità di portare la Chiesa fuori dalla crisi in cui era finita per via del discredito causato dallo scandalo degli abusi su minori commessi da membri del clero.

Il problema della violenza sessuale sui più piccoli, però, ha smesso di essere al centro della discussione già nel corso dei preparativi ad un processo senza precedenti, in cui i laici – o per meglio dire i rappresentanti delle potenti organizzazioni laicali dei cattolici tedeschi – hanno rivendicato ed ottenuto di confrontarsi coi vescovi su un piano di parità, anche nell'aspetto decisionale.

A prendersi la scena è stata invece la narrazione sull'esistenza di una causa sistemica di questo male da rintracciare nella Chiesa in sé, per come la conosciamo e l'abbiamo sempre conosciuta fino ad oggi. Il diktat dello ZDK (Zentralkomitee der deutschen Katholiken) per stringere la mano tesa dalla Conferenza con la proposta di essere coinvolti nel cammino sinodale è stato accettato dalla maggioranza dei vescovi senza problemi e così il cammino sinodale è nato com'è finito: con l'intento di chiedere cambiamenti sulla morale sessuale, sul celibato sacerdotale e sul no all'ordinazione femminile. 

Sin dai primi passi dell'esperienza conclusasi un mese fa a Francoforte, tre dei presuli che si sono più esposti a sostegno del cammino di riforma – nonostante le radicalità e i dubbi manifestati anche da Roma – sono stati il cardinale Reinhard Marx e i vescovi Franz-Josef Bode e Stefan Heße. 

Il primo sarà ricordato probabilmente come il padre del Cammino Sinodale sebbene abbia lasciato la presidenza della Conferenza episcopale nel bel mezzo dell'assise (e del braccio di ferro con la Curia), rinunciando ad un atteso secondo mandato nel 2020. Fu lui ad inaugurare già prima dell'assemblea inaugurale l'atteggiamento da "finto tonto" con Roma che ha caratterizzato anche la presidenza di Georg Bätzing: di fronte alle lettere dei dicasteri che ammonivano i vescovi tedeschi a non discutere o prendere decisioni su temi che riguardano la Chiesa universale, l'arcivescovo Monaco e Frisinga si è limitato a fare lo gnorri, evitando lo scontro diretto ma senza retrocedere. 

Stefan Heße, arcivescovo di Amburgo, è stato un altro grande protagonista del processo anche perché dello ZDK – che al Cammino Sinodale ha dettato l'agenda, secondo il parere del cardinale Gerhard Ludwig Müller – è assistente spirituale. Nella decisiva assemblea del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi che diede il via libera alla partecipazione all'assiste, proprio Heße pronunciò un duro discorso in cui disse che la Chiesa era destinata ad un «percorso di morte» dopo lo scandalo abusi e motivò la necessità del coinvolgimento dei laici perché «noi vescovi non possiamo farcela da soli».

Non meno netto fu monsignor Franz-Josef Bode, vescovo di Osnabrück, che nella prima assemblea a Francoforte presentò il Cammino come «un grande laboratorio per il futuro della Chiesa», difendendo anche la volontà di prendere decisioni sulla dottrina e sulla morale contrariamente a quanto ordinato più volte dalla Santa Sede. 

Tra i tre, quest'ultimo è l'unico che a breve non guiderà più la sua diocesi, ma non è l'unico ad aver avuto problemi in questi tre anni. Monsignor Bode, infatti, ha presentato le sue dimissioni al Papa che le ha accettate a marzo nonostante il prelato fosse ancora 72enne. A spiegare i motivi del passo indietro è stato lo stesso vescovo che ha ammesso la sua negligenza nella gestione di alcuni casi passati di abusi all'interno della diocesi che guida dal 1995: «ho giudicato male i casi, spesso ho agito con esitazione e talvolta ho preso decisioni sbagliate», ha detto in una conferenza stampa. Nella stessa occasione, però, Bode ha svelato che la constatazione di aver lavorato molto è scaturita dalla lettura di un report sulle violenze pubblicato nel settembre del 2022.

Il vescovo di Osnabrück, dunque, pur avendo già preso atto degli errori per i quali poi si è dimesso un mese fa, ha continuato non solo a rivestire l'incarico di vicepresidente della Conferenza episcopale ma anche a sedere nel massimo comitato del Cammino Sinodale dal quale ha accolto con lacrime di gioia il voto per l'apertura all'ordinazione femminile. Nonostante l'ammissione di negligenza, Bode ha ricevuto le lodi del presidente della Conferenza episcopale, monsignor Bätzing che si è rammaricato per non avere più il presule al suo fianco e che ha annunciato la presenza alla sua ultima celebrazione da vescovo in carica a Osnabrück.

Con Bode, Heße e Marx non hanno in comune solo il sostegno entusiasta all'agenda del Cammino Sinodale. Tutti e tre, infatti, hanno rassegnato le loro dimissioni nelle mani di Francesco. Tutti e tre per errori nella gestione di casi di abusi. Monsignor Heße si era dimesso dopo la pubblicazione dell'indagine sui casi relativi all'arcidiocesi di Colonia e che riguardavano anche gli anni in cui era stato vicario generale. Francesco aveva dapprima accettato il passo indietro provvisorio del prelato da Amburgo nel marzo 2021, poi però gli aveva rinnovato la sua fiducia.

La notizia era stata resa nota tramite un comunicato della nunziatura apostolica in Germania nella quale però non si taceva l'errata condotta di Heße ai tempi di Colonia ammettendo che «durante il periodo in questione ci sono stati errori nell'organizzazione e nei metodi di lavoro del Vicariato Generale dell'Arcivescovado, così come errori procedurali personali da parte di Mons. Heße» e specificando che «il problema fondamentale [...] è stata la mancanza di attenzione e sensibilità nei confronti delle persone colpite dagli abusi».

Il Papa però aveva respinto le sue dimissioni perché a suo dire il presule avrebbe «umilmente riconosciuto gli errori commessi in passato e che ha messo a disposizione il suo ufficio». Nel report su Colonia, invece, è stato scagionato il cardinale Rainer Maria Woelki di cui però il mondo del laicato organizzato dei cattolici tedeschi, trovando sponda nella maggioranza dell'episcopato nazionale, continua a chiedere la cacciata. L'arcivescovo di Colonia, a differenza di Heße, è una delle poche voci critiche sul Cammino Sinodale. 

L'altro cardinale tedesco a guida di una diocesi, Reinhard Marx, ha trasformato le sue dimissioni in un atto politico. Due anni fa, infatti, ha annunciato il passo indietro in una lettera nella quale accennava ai risultati di indagini e perizie che avrebbero evidenziato che «ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi», accostandoli subito però a quello che definiva un «fallimento istituzionale e sistemico».

Il riferimento agli errori commessi individualmente dovrebbe essere relativo al periodo in cui ricopriva l'incarico di vescovo di Treviri. In un'intervista su Die Zeit Marx disse di voler «espressamente riconoscere oggi, purtroppo solo a posteriori, che io avrei dovuto informarmi più profondamente» in merito al caso di un uomo oggi maggiorenne e vittima negli anni '90 delle violenze di un sacerdote nella provincia del Saarland, appartenente alla diocesi di Treviri. L'uomo avrebbe denunciato l'accaduto nel 2006, quando il mandato di Marx era già iniziato. Accolte dal consenso dei mass media per la denuncia sistemica, le dimissioni del cardinale furono respinte dal Papa. 

Il Cammino Sinodale tedesco, con le sue ricette dirette a cambiare la dottrina e la morale, è stato presentato come il rimedio per la perdita della credibilità della Chiesa causata dallo scandalo abusi. Ma il fatto che tre dei suoi principali artefici abbiano ammesso il loro fallimento come vescovi nella gestione di casi del passato fino al punto di rimettere il loro mandato nelle mani del Papa non dovrebbe indurre ad una maggiore riflessione proprio sulla credibilità di questo percorso che rischia di spaccare la Chiesa?