Giuseppe Donati, il cattolico che smascherò Mussolini
Giuseppe Donati, direttore de Il Popolo, fu il giornalista cattolico che, con la sua inchiesta indipendente, scoprì le responsabilità dei vertici fascisti nel delitto Matteotti. Morto in esilio, si distinse nettamente dagli altri antifascisti che lui chiamava "monopolizzatori". Un esempio di coraggio per la stampa cattolica.
Già nel 1963 Paolo VI chiedeva che la stampa cattolica avesse una "voce sempre squillante di timbro cristiano" e si rammaricava del fatto che i giornalisti di "non sane idee sono, sotto questo aspetto, a vantaggio delle loro tesi più avveduti e combattivi di noi". Papa Montini, figlio dell'ex direttore de Il Cittadino di Brescia, parlava a ragion veduta ed inquadrava un certo spirito di arrendevolezza ben visibile anche oggi nella categoria. Eppure la storia del giornalismo cattolico italiano può vantare indimenticabili firme a cui non è certamente mancato il coraggio.
Uno dei più grandi - ed anche dei più dimenticati - è Giuseppe Donati, passionale primo direttore de Il Popolo. In quest'agosto in cui si è tanto parlato di fascismo, antifascismo e toponomastica, si sono giustamente ricordate vittime del regime come Giacomo Matteotti, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Antonio Gramsci e Giovanni Amendola. Nessuno, però, ha menzionato il nome del giornalista faentino morto in esilio a Parigi nel 1931. Donati fu uno degli avversari più tenaci del fascismo e lo combatté con l'arma a lui più consona: il giornalismo d'inchiesta.
Fu lui, infatti, il primo a scrivere su un quotidiano delle responsabilità dei dirigenti del PNF nel caso Matteotti e a raccogliere tutte le informazioni in un memoriale che gli venne rubato negli uffici della redazione. Per nulla intenzione a desistere, il direttore de Il Popolo a quel punto decise che il dado era tratto e il 6 dicembre 1924 si recò in Senato per denunciare Emilio De Bono, uno dei quattro quadrumviri della marcia su Roma e all'epoca capo della Polizia, con l'accusa di aver depistato le indagini sul rapimento e l'uccisione del deputato socialista. E' ad un giornalista cattolico, quindi, direttore dell'organo ufficiale del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, che dobbiamo l'inchiesta - ed anche la denuncia - più coraggiosa della storia del giornalismo italiano. Senza Donati, l'opinione pubblica non avrebbe saputo del coinvolgimento dei vertici fascisti nel delitto Matteotti e gli storici, probabilmente, lo avrebbero scoperto soltanto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Scettico sulla linea attendista dell'Aventino, il giornalista faentino era convinto che in quel preciso momento storico, forte dello sdegno popolare per la vicenda Matteotti, fosse possibile rovesciare Mussolini con un tentativo insurrezionale guidato dagli eredi di Garibaldi e a cui sarebbe dovuta seguire una collaborazione al governo tra popolari e socialisti riformisti dopo libere elezioni. In quei giorni di grande debolezza per la sopravvivenza del fascismo, Il Popolo divenne il laboratorio di quest'operazione politica prospettata al 'dopo': protagonista, ancora una volta, lo stesso Donati che intervistò sul suo giornale - con lo pseudonimo di Carlo Silvestri - il grande vecchio del socialismo italiano, Filippo Turati. L'obiettivo era quello di ammorbidire la posizione vaticana a proposito di un eventuale governo tra popolari e riformisti nella convinzione - precedentemente condivisa anche da Matteotti - che così facendo si sarebbero fatti tornare i massimalisti su posizioni moderate e si sarebbero isolati i comunisti.
Il piano insurrezionale che avrebbe dovuto precedere questo scenario nei desideri di Donati e di Tito Zaniboni, leader del Partito Socialista Unitario, naufragò definitivamente nel giugno del 1925: il Senato assolse De Bono per insufficienza di prove, costringendo il direttore de Il Popolo ad abbandonare l'Italia sotto la minaccia delle ritorsioni fasciste. Pochi mesi dopo la partenza a Londra del suo maestro don Luigi Sturzo, pressato dalle continue visite della polizia, Donati salì su un treno - seguito da due uomini della pubblica sicurezza - in compagnia dell'amico e sodale Guido Armando Grimaldi e si trasferì in esilio a Parigi. La sua assenza indebolì notevolmente il progetto iniziale di Zaniboni che sfociò, poi, nell'attentato contro Mussolini sventato dall'Ovra il 4 novembre 1925. Proprio a seguito del fallito tentativo di Zaniboni, scattò una stretta nel Paese che portò alla chiusura in quello stesso mese de Il Popolo.
Non furono facili gli anni francesi per lui: per sopravvivere, si fece ospitare in una soffitta e incominciò a fare il cameriere in un bistrot. Ma non perse la passione per la scrittura e per l'impegno civile tanto da fondare, poco dopo essere sbarcato nella capitale, Il Corriere degli Italiani, giornale dei fuoriusciti non comunisti italiani che nel sottotitolo rivendicava apertamente di uscire in Francia "perché il fascismo aveva soppresso in Italia la libertà di stampa". Un organo di stampa capace di raggiungere una buona diffusione, di passare in poco tempo dall'essere settimanale a quotidiano e di ospitare gli articoli di una firma come Gaetano Salvemini. Tutto merito dell'intraprendenza di Donati che per l'iniziativa venne punito con l'espulsione dall'Associazione della stampa di Roma per "indegnità morale".
L'impetuosità caratteriale e l'estrazione cattolica gli inimicarono molti degli esiliati a Parigi, al punto da fargli scrivere nel 1926 un duro editoriale contro quell'"antifascismo speciale che non cerca la fine del fascismo per se stesso: cerca invece di prender il posto del fascismo per continuare l'opera contro chi non pensa e non agisce secondo lo schema teorico e pratico di una certa politica settaria ed angusta". L'ostilità nei suoi confronti aumentò dopo i Patti Lateranensi nel 1929 da lui salutati con favore "anche se portano la firma di alcuni assassini emeriti come Mussolini e Giunta e come Rocco". Molti degli altri fuoriusciti più politicizzati mal sopportavano quest'impetuoso giornalista, fortemente cattolico, sostenitore di un'idea di antifascismo libero da barriere ideologiche. Nemico dei "monopolizzatori", come li chiamava lui, Donati finì inevitabilmente isolato. Questa condizione lo portò, talvolta, a fidarsi di personaggi poco limpidi ed avventurieri. Quando il suo amico Salvemini gli chiese il perché di certe frequentazioni poco raccomandabili, Donati gli rispose così: "Pianto il mio bastoncino dove posso; faccio la guerra al fascismo come posso”.
Le condizioni di vita a Parigi, nel frattempo, ne deteriorarono la salute già cagionevole di ex tubercolotico: si ammalò di cuore e l'umidità aggravò la situazione dei polmoni. Ridotto in povertà e deluso per il pregiudizio anticlericale che gli veniva fatto scontare, accettò l'invito di don Sturzo a trasferirsi a Malta per insegnare italiano in un collegio. In questi anni il binomio Sturzo-Donati, già fondamentale nei primi anni del Partito Popolare fino alle purghe mussoliniane, fu l'asse su cui si resse il popolarismo in clandestinità all'estero. Il trasferimento sull'isola mediterranea non bastò al giornalista faentino per recuperare le forze: tornato a Parigi, vi morì in miseria nell'agosto del 1931, senza aver mai potuto conoscere l'ultima figlia nata dopo la sua partenza in esilio.
Questo fu un altro aspetto atroce - e sottovalutato - della vita degli esiliati politici: la separazione e la lontananza dalla famiglia. Un dolore in cui si insinuava il regime fascista per colpire i suoi avversari con cattiverie e maldicenze relative alla vita coniugale. Nemmeno Donati fu risparmiato da questo trattamento e lui, devotissimo come anche la moglie, ne soffrì non poco. Il grande giornalista, autore delle inchieste più coraggiose su episodi come l'uccisione di don Minzoni e quella di Matteotti, morì talmente povero che per pagargli il funerale e la tomba fu indetta una colletta da Carlo e Nello Rosselli sottoscritta anche da Pietro Nenni, Gaetano Salvemini, Ferruccio Parri e Piero Gobetti. Altri esiliati, invece, non gli perdonarono di aver giudicato positivamente la firma dei Patti Lateranensi e quel suo spirito libero che lo portava a criticare negli articoli i "monopolizzatori" dell'antifascismo.
E' grazie a uomini come Giuseppe Donati, il cui esempio è più forte di quello dei "cattolicisti atei" (così li chiamava) affascinati da un presunto carattere religioso del fascismo, che il mondo cattolico italiano può rivendicare una primogenitura ed una centralità nella storia dell'antifascismo italiano. Per questo, specialmente se si parla del caso Matteotti come è accaduto in questi giorni dopo le polemiche relative alla figura di Arnaldo Mussolini, nella lista delle vittime del fascismo da ricordare meriterebbe un posto speciale anche quel giornalista cattolico che con un'inchiesta ed una denuncia inchiodò i vertici fascisti alle loro responsabilità. Che il suo coraggio non smetta di essere uno sprone per la stampa cattolica di oggi e di domani.