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UNA CRISI EUROPEA

Germania, Europa: una classe dirigente che divide la società e poi pretende di salvarla

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All'indomani delle elezioni locali in Germania, vinte da partiti anti-sistema, i partiti di governo non si interrogano sui loro errori. Tutt'altro, invocano un cordone sanitario per emarginare gli estremisti. Ma sono proprio le loro politiche che hanno profondamente diviso la società e impoverito il paese.
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Esteri 06_09_2024
Olaf Scholz (La Presse)

Subito dopo i risultati delle elezioni nei Länder di Turingia e Sassonia, che hanno visto la inequivocabile vittoria della destra sovranista di Alternative für Deutschland e della sinistra populista di Sarah Wagenknecht, con il corrispondente crollo dei partiti governativi della coalizione "Semaforo" (socialdemocratici, liberali e verdi), è arrivato l'annuncio, da parte di due tra le maggiori aziende automobilistiche tedesche, Volkswagen e Audi, della chiusura di alcuni stabilimenti e di migliaia di licenziamenti.

I due eventi sembrano richiamarsi l'un l'altro, legati in un circolo ormai difficile da spezzare. L'economia industriale tedesca - quella che fino ancora a pochi anni fa era considerata la "locomotiva d'Europa", è stata letteralmente messa in ginocchio dal combinato disposto tra due fattori che non sono il frutto di una fatalità imprevedibile, ma delle scelte politiche consapevoli operate dalle forze politiche governative tedesche e prima ancora dalla Cdu, attraverso la precedente maggioranza guidata da Angela Merkel e la leadership della Commissione europea di Ursula von der Leyen: la politica del "Green Deal" dettata dall'adesione all'ideologia apocalittica climatista e la contrapposizione totale alla Russia nel conflitto tra Mosca e Kiev.

L'integralismo dogmatico Ue per la transizione energetica, di cui la classe politica di Berlino è stata la sostenitrice più decisa, ha prodotto la demolizione del settore automotive tedesco ed europeo, e più in generale di tutta la produzione meccanica, metallurgica e metalmeccanica, in favore dell'industria cinese, quasi monopolista nelle materie prime, nella componentistica e spesso anche nei prodotti finiti  nel campo di mobilità elettrica e impianti per energie rinnovabili. E ha provocato da un lato un'impennata dell'inflazione dovuta proprio alla corsa alle materie prime e ai disincentivi ai danni dell'energia giudicata non "sostenibile', dall'altro un aumento - questo sì davvero non sostenibile - del costo della vita per le famiglie dovuto proprio ai rigidi obblighi ambientali imposti, con conseguenti aspettative sempre più pessimistiche per il futuro.

In una situazione economica già ampiamente messa a repentaglio da  simili irresponsabili scelte ideologiche, nel 2022 è piombata l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. La Germania, che da decenni aveva sviluppato relazioni economiche e politiche intense con Mosca, dopo una prima, breve fase in cui ha tentato di svolgere timidamente una funzione di mediazione è stata richiamata bruscamente all'ordine dagli Stati Uniti, come tutti gli alleati Nato europei, e ha dovuto adeguarsi a una linea di contrapposizione totale con i russi, vedendo danneggiate gravemente con le sanzioni le proprie esportazioni, e soprattutto essendo costretta a rinunciare al gas russo. Ciò ha contribuito significativamente ad alimentare e accrescere gli elementi di crisi economica che erano stati già innescati dagli sconsiderati programmi green e dalla chiusura delle centrali nucleari imposta dai Verdi. Il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha provato a fare di necessità virtù, riconvertendo in parte la produzione industriale nazionale in armamenti da destinare agli ucraini, ma si tratta evidentemente di un ripiego, alimentato comunque da stanziamenti pubblici, che non potrà compensare il giro di affari perduto. In tali condizioni, non sorprende il fatto che la Germania sia diventato, da paese trainante, il “malato” dell'Ue, sprofondando più di altri, in un clima di crescita bassa se non assente per quasi tutto il continente, verso la recessione.

A questo quadro di pessimismo e alta tensione sociale si aggiunge un terzo elemento deflagrante: i conflitti sempre più ingestibili legati all'immigrazione, soprattutto da paesi musulmani, favorita in passato indiscriminatamente da Angela Merkel e poi abbracciata come un dogma dalle forze di governo attuali in nome di un multiculturalismo acritico, ma le cui contraddizioni connesse allo “scontro tra civiltà” vengono ormai continuamente alla luce – da ultimo con fatti di sangue prodotti da puro odio come la strage recentemente perpetrata a Solingen, che ha spinto tardivamente persino Scholz a promettere una stretta sui flussi irregolari.

A partire da tali premesse, come ci si può stupire del fatto che un numero crescente di elettori – in particolare nelle regioni più economicamente sofferenti e tra le fasce operaie e giovanili – scelga di votare in misura ancora crescente per partiti come Afd o Bsw, gli unici sul “mercato politico” nazionale a contestare l'agenda green, l'immigrazionismo a tutti costi e la “guerra infinita” con la Russia in cui i membri europei di Ue e Nato sono stati risucchiati?

Ormai è diventata una triste e ripetitiva abitudine in Europa e in tutto l'Occidente: davanti ai successi delle destre “populiste” e “sovraniste” - o di sinistre radicalmente anti-politically correct come quella della Wagenknecht – le élites politiche, intellettuali e mediatiche schierate quasi unanimemente nel campo progressista/woke si stracciano le vesti scandalizzate, emettono lamenti di indignazione, demonizzano le forze dissidenti dalla loro agenda additandole come razziste, fasciste, naziste, chiamano all'”unione sacra” e al “cordone sanitario” contro di loro in nome della difesa della democrazia – come sta avvenendo, appunto, per l'ennesima volta ora in Germania.

Certamente, almeno nel caso tedesco, nelle voci di protesta che si indirizzano a quelle forze non mancano accenti estremisti. Ma la logica del “cordone sanitario” - in Germania come in Francia, come in Ue dopo le recenti elezioni europee – non ottiene altro risultato che quello di creare coalizioni innaturali, paralizzate da veti incorciati, irrigidite in prese di posizione astratte e radicali, e quindi di incancrenire la crisi e accentuare le lacerazioni nell'opinione pubblica, polarizzando ulteriormente lo scontro e radicalizzando anche il dissenso.

Da questo punto di vista la posizione più paradossale è quella della Cdu/Csu, che raccoglie i frutti del suo stare all'opposizione mantenendo i propri consensi o perdendone di meno, e convogliando in parte il disagio che premia anche i movimenti populisti/sovranisti, ma che poi rifluisce ancora, come in gran parte i Partiti popolari nel vecchio Continente, nella retorica del “cordone sanitario”, quando invece potrebbe e dovrebbe cercare di spezzarlo, per lanciare ponti di dialogo verso gli elettori esacerbati e comprenderne le ragioni, per mettere in discussione i punti più molesti di quell'agenda ideologica, piuttosto che radicalizzarla ancora di più.

Il riflesso che punta a escludere  i “paria” da ogni agibilità politica prepara pericolosamente la crisi strutturale delle democrazie occidentali, e può favorire proprio ciò che si dice di voler impedire: la loro sovversione e la caduta delle società in una guerra civile strisciante.