Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
MEDIO ORIENTE

Gaza, niente tregua: situazione umanitaria insostenibile

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«Nessun posto nella Striscia è più sicuro, ci sono solo macerie». Un migliaio di cristiani riuniti nei complessi di due chiese mentre l'offensiva israeliana s'intensifica. La preoccupazione del cardinale Pizzaballa. Il veto Usa alle Nazioni Unite sul cessate il fuoco alimenta la rabbia in tutti gli Stati arabi.

Esteri 11_12_2023
Il bombardamento a Al Zawayd, nel centro della Striscia di Gaza

«L'esercito ci chiede di lasciare questi locali dove attualmente viviamo. Ci invita ad andare verso sud, ma anche quelle zone sono ora sotto le bombe dell'aviazione militare e gli abitanti sono costretti a scappare in cerca di posti più sicuri. Dove dobbiamo andare?». Questa è una delle tante domande che quotidianamente vengono poste al patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Non c'è giorno, infatti, che lui o qualche suo vescovo non parlino con i cristiani di Gaza.

Tutti riuniti in due complessi: in duecento vivono in un locale vicino all'ingresso della chiesa ortodossa, mentre, altri settecento nei locali della parrocchia cattolica. «Dove dobbiamo andare?» si chiede ancora questa cristiana di Gaza. «Se guardo fuori vedo solamente case sventrate o abbattute. Solo macerie. Anche gli alberi sono stati tagliati dai soldati israeliani. A volte vedo delle persone che vagano tra le rovine in cerca di qualche loro familiare, che non è stato ancora trovato, oppure alla ricerca di qualche bottiglia di acqua smarrita da qualcuno. La situazione è veramente tragica».

Il patriarca Pizzaballa è molto preoccupato. La situazione umanitaria peggiora col passare dei giorni. E rivela: «Una donna mi disse: dove devo andare? Nessun posto a Gaza è più sicuro. Ma la sera quando cerco di addormentarmi il mio pensiero è rivolto ad un luogo particolare, si trova a pochi metri dal mio giaciglio. Lì c'è il Signore. È nel tabernacolo. Se proprio deve accadere qualcosa di tragico è meglio che accada in questo luogo».  

Un attivista del gruppo israeliano Yesh Din per i diritti umani ha rimarcato: «Vogliono cacciare gli abitanti di Gaza dalla loro terra. Li spingono verso il Sinai, a vivere sotto le tende. Per quanto tempo, pochi mesi oppure anni? La gente prima o poi lascerà la loro terra ed emigrerà all'estero per non fare più ritorno. Le persone sono affamate e disperate, i supermercati hanno gli scaffali vuoti e nei rifugi sovraffollati i servizi igienici sono straripanti. Ora c'è anche il rischio di epidemie».
Il bilancio delle vittime nella Striscia è salito a 17.674 e ad oltre 49.300 feriti. Lo sostiene il ministro della Salute della Cisgiordania, controllato dall'Anp, l'Associazione Nazionale Palestinese.

Nel frattempo, a Gaza, nella Cisgiordania e in molti stati arabi aumenta la rabbia contro Israele e gli Stati Uniti. In particolare, dopo l'iniziativa di Washington di mettere il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu sul cessate il fuoco immediato. Il presidente palestinese, Abu Mazen, ha definito il veto degli Usa aggressivo, immorale ed una palese violazione di tutti i valori e i principi umanitari. Mentre, il presidente turco Tayyip Erdogan, ha criticato il Consiglio delle Nazioni Unite definendolo il «Consiglio di protezione israeliana». Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, parlando al Forum di Doha, in Qatar, ha ribadito che «a Gaza esiste un serio rischio di collasso della situazione umanitaria, col rischio che si trasformi in una catastrofe, con implicazioni potenzialmente irreversibili per i palestinesi e per la pace e la sicurezza nella regione».

Non solo Gaza, anche la Palestina è sotto assedio. Una guerra silenziosa, quasi dimenticata o meglio ignorata. Una terra penalizzata. Sacrificata. È questo il pensiero dominante tra la popolazione, in modo particolare, dopo la presa di posizione degli Stati Uniti contro la richiesta di una tregua umanitaria a Gaza.
In Cisgiordania le strade sono bloccate. Le vie d'accesso nei villaggi sono interrotte da blocchi di pietra o di cemento armato. I militari israeliani hanno lasciato soltanto un piccolo varco per poter passare a piedi o con i muli, dopo meticolosi controlli da parte dei soldati dello stato ebraico. Gli unici che hanno libertà di movimento sono i coloni. Non c'è giorno, infatti, che gli estremisti israeliani non portino a compimento delle azioni terroristiche con il beneplacito dell'esercito israeliano. L'obiettivo è evidente: cacciare dalle loro case i residenti ed occupare le loro abitazioni. Il numero dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dall'inizio del 2023 sale a 467, di cui 259 dopo il 17 ottobre.

Procurarsi cibo, acqua o medicinali è diventato impossibile. Nessuno può recarsi a lavorare. Gli operai palestinesi impegnati in Israele non vengono più utilizzati. Ora il governo guidato da Netanyahu li sta sostituendo con manodopera indiana. L'India, essendo il paese più popoloso al mondo, avendo da poco superato la Cina, ha un surplus di manodopera qualificata. Questo fatto è diventato da tempo un vantaggio sul mercato delle richieste internazionali. I lavoratori indiani sono preferiti, nei paesi del Medio Oriente, poiché presentano rischi minimi per la sicurezza. Infatti, la sostituzione dei lavoratori palestinesi, secondo il governo israeliano, rafforzerebbe significatamene la sicurezza dei cittadini ebrei.

Ieri mattina, domenica, durante la tradizionale riunione del gabinetto del suo governo, il primo ministro Netanyahu ha lasciato l'incontro per una conversazione telefonica, la seconda da quel tragico 7 ottobre, con Vladimir Putin. Nel corso del colloquio Netanyahu ha espresso il suo disappunto per alcune dichiarazioni contro Israele rilasciate da funzionari russi all'Onu e in altre sedi. Il leader russo, da parte sua, è tornato a sottolineare la posizione di Mosca: la creazione di uno Stato palestinese indipendente che coesista in pace con Israele, ritenendola l'unica soluzione equa possibile al problema.

Natale è alle porte. «Non c'è Greccio senza Betlemme», ha detto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, da una terra più che mai in cerca di pace e speranza. Nella città dove è nato Gesù la comunità cristiana ha sospeso i festeggiamenti natalizi come gesto di solidarietà nei confronti della popolazione della Striscia di Gaza. Le funzioni religiose saranno comunque svolte, lo stesso a Gerusalemme e in Giordania, il paese che ospita la più alta concentrazione di rifugiati palestinesi al mondo.

Nel frattempo, il custode di Terra Santa, Francesco Patton, come da tradizione, ha fatto l'ingresso ufficiale nella Basilica della Natività di Betlemme in occasione dell'inizio dell'avvento. «L'ingresso a Betlemme – ha detto padre Patton – oggi riveste una particolare importanza: passeremo attraverso un muro che separa le due realtà, come una sorta di pellegrinaggio, ma vogliamo sottolineare che Gerusalemme e Betlemme devono rimanere unite». Il custode ha poi espresso la sua particolare vicinanza ai cristiani di Betlemme, colpiti soprattutto nel loro lavoro per la mancanza di pellegrini.
Ha poi aggiunto: «L’atteggiamento della speranza è l’atteggiamento più importante e dobbiamo anche chiederlo come dono da Dio: non è quando tutto va bene che abbiamo bisogno di speranza, ma quando ci sembra che la nostra situazione sia senza futuro, soprattutto oggi che siamo in mezzo a una guerra con tutti i suoi pericoli e incertezze … Abbiamo bisogno di speranza perché la realtà in cui ci troviamo ci fa temere per il futuro della nostra comunità e delle nostre famiglie. Con la sua Parola, Dio ci aiuta a tenere accesa la fiamma della speranza nonostante la difficile situazione in cui ci troviamo».



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