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SCONFITTA

Fuga da Kabul, alcune ragioni del disastro militare

Più ci si addentra nello scandalo della ritirata americana dall’Afghanistan, più emergono dettagli raccapriccianti. Secondo una stima del Dipartimento di Stato è stata lasciata a terra la maggioranza degli afgani che, avendo lavorato per gli americani, avevano diritto d’asilo negli Usa. Alla radice del disastro: errori di intelligence e fratture nel governo.

Esteri 07_09_2021
Kabul, scene della ritirata

Più ci si addentra nello scandalo della ritirata americana dall’Afghanistan, più emergono dettagli raccapriccianti. Secondo una stima del Dipartimento di Stato è stata lasciata a terra la maggioranza degli afgani che, avendo lavorato per gli americani, avevano diritto d’asilo negli Usa. A ulteriore dimostrazione che la ritirata sia stata più simile ad una rotta, sotto il fuoco nemico e senza la necessaria pianificazione. Alla base di questi eventi vi sarebbero stati, oltre a una rottura fra Biden e militari, anche una divergenza fra il Dipartimento di Stato e il Pentagono sui tempi del ritiro, una volta che questo è stato deciso.

Purtroppo non esistono cifre esatte sul numero degli afgani e neppure dei cittadini statunitensi (probabilmente poco più di 200) rimasti intrappolati in Afghanistan. Il ponte aereo condotto dagli americani, dagli alleati e da privati, ha portato in salvo 123mila persone, fra cui 6mila americani. Raramente, però, questi coincidono con la lista di persone, diffuse in tutto il Paese, che avevano collaborato attivamente con le forze statunitensi e alleate, nel corso degli ultimi venti anni. Fra loro e i famigliari più prossimi, sono un piccolo esercito di circa 100mila persone. La loro evacuazione era appena iniziata il 14 agosto, quando Kabul è caduta in meno di un giorno nelle mani dei Talebani.

Quando è incominciato il caos all’aeroporto internazionale Hamid Karzai hanno trovato posto, sugli aerei da carico e i voli charter, sia civili inclusi nelle liste del personale da evacuare, sia un misto di fortunati, intraprendenti, paganti, afgani provvisti di Green card (permesso di soggiorno) e cittadini statunitensi. L’attentato dello Stato Islamico (quasi 200 vittime, fra cui 13 marines statunitensi) ha creato ulteriori restrizioni nelle operazioni di imbarco, spingendo alla chiusura di tutti gli accessi tranne uno.

Sebbene non vi siano le cifre esatte dei “lasciati indietro”, alcuni nomi iniziano ad emergere. Fra questi c’è anche l’interprete afgano che nel 2008 contribuì a salvare l’allora senatore Joe Biden e altri due suoi colleghi, in visita in Afghanistan, dopo che erano dovuti atterrare a una quarantina di km dalla base di Bagram, in emergenza, a causa di una tempesta di neve.

Secondo la paziente ricostruzione degli eventi fatta dal Wall Street Journal, attraverso interviste a funzionari e persone informate dei fatti, il ritiro si è trasformato in rotta a causa di una serie di errori di intelligence, rigidità dell’amministrazione e lotte fra le varie branche dell’esecutivo. Era già noto lo strappo fra il presidente Joe Biden e i militari, che lo pregavano di lasciare almeno un contingente di 2500 uomini (ereditato dalla precedente amministrazione). Biden, considerando l’Afghanistan un “pozzo senza fondo”, ha invece accelerato il ritiro, annunciando in aprile e fissando la data finale al 31 agosto, in modo da riavere le truppe a casa entro il 20mo anniversario dell’11 settembre.

Una volta che il Pentagono ha ricevuto l’ordine di ritiro, lo ha eseguito senza indugio. Spingendo anche per ritirarsi senza dare nell’occhio e rapidamente, chiudendo la base di Bagram, la principale delle forze statunitensi in Afghanistan, entro l’inizio di luglio. Qui si è creato un attrito fra il Dipartimento di Stato e la Difesa. Perché il primo puntava a mantenere gran parte del personale diplomatico nell’ambasciata. Questa decisione vene determinata, a sua volta, da un grave errore di intelligence. Secondo i rapporti della primavera scorsa, infatti, si prevedeva che il governo di Kabul avrebbe potuto resistere ai Talebani per altri due anni.

Mentre la situazione deteriorava, alla fine di giugno, era il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, ad avvertire che un ritiro troppo affrettato delle truppe non sarebbe stato prudente. Tuttavia, il 22 giugno il presidente Biden ha firmato l’ordine di chiusura di Bagram, entro il 2 luglio come previsto. Di lì fino alla fine di agosto si sarebbe dovuta mantenere una presenza militare ancor più ridotta, 650 uomini in tutto per presidiare l’ambasciata e l’aeroporto, fino al termine del ritiro. L’intelligence, benché avesse corretto il tiro delle sue stime troppo ottimistiche, comunque prevedeva che il governo di Kabul avrebbe retto per altri sei mesi ai Talebani. Un’evacuazione di civili e diplomatici sarebbe stata più difficile del previsto, ma non una missione impossibile.

Il 13 luglio, però, l’ambasciata di Kabul inviò a Washington un rapporto di minoranza in cui si stimava che la caduta di Kabul potesse essere “imminente”, non tanto questione di mesi, ma forse solo di settimane. Il rapporto invitava a completare l’evacuazione dei civili entro il 1 agosto. Ma il calendario del ritiro non venne modificato. Con la chiusura di Bagram, la presenza militare americana in Afghanistan è di fatto cessata e l’esercito regolare afgano ha retto ai Talebani per sole sei settimane.

Il resto è cronaca. Per ironia della sorte, al fine di garantire la sicurezza del ponte aereo, l’amministrazione Biden ha rimandato in Afghanistan 6mila militari, più del doppio di quelli che aveva appena ritirato. Negli ultimi 18 mesi gli americani non avevano subito alcuna perdita, in un solo giorno hanno avuto 13 morti nell’attentato all’aeroporto di Kabul.