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arte sacra

Francesco Mori: dipingere la tradizione dialogando con l'eterno

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Dalle grandi vetrate alla calligrafia, al Palio del 2015 concepito come "un omaggio alla Vergine". Per l'artista toscano il ritorno del figurativo e del sacro si gioca sul linguaggio della realtà. Che è universale, perché è il linguaggio di Dio.

Cultura 24_07_2024

Dalla pittura alla miniatura, passando per le vetrate e la calligrafia: già il “vocabolario” artistico di Francesco Mori ha il sapore di “cose nuove e cose antiche”. Grossetano, benché nato a Siena nel 1975, ha all’attivo prestigiose commissioni ed è suo il drappellone del Palio di Siena del 2 luglio 2015 che al pari di quello recentissimo di Giovanni Gasparro costituisce una felice eccezione nella progressiva secolarizzazione dell’iconografia del Palio nell’affannosa ricerca dell’“originalità”. A fare la differenza per Mori è la tradizione che volge lo sguardo all’eterno, come emerge dalla visione delle sue opere e dall’intervista che ha rilasciato alla Bussola.

Qual è stata la scintilla “primordiale” che ha acceso la passione per l’arte? 
Da bambino ero affascinato dai libri d’arte di mio padre, che si stava laureando in architettura: copiavo soprattutto i disegni di Michelangelo, che sono stati il mio primo alunnato. Poi ho frequentato il liceo classico e mi sono laureato in storia dell’arte e durante gli studi risparmiavo per andare a bottega dagli allievi di Pietro Annigoni (1910-1988) o dagli allievi degli allievi.

E poi arrivano prestigiose commissioni...
Nel 2003 mi è stata commissionata la riproduzione dell’oculo absidale dipinto da Duccio di Buoninsegna nella cattedrale di Siena, dal momento che l’originale è stato musealizzato. Nel 2003-2004 avevo anche collaborato alla mostra Duccio. Alle origini della pittura senese. Da lì poi Sgarbi mi ha chiamato a realizzare le vetrate della cattedrale di Noto, dedicate ai sacramenti. Nel 2016 l’Opera Primaziale di Pisa ha indetto un concorso per le vetrate del Battistero: quelle ottocentesche erano ridotte malissimo per via dei bombardamenti e dell’incuria. Ho vinto con quattro bozzetti e l’anno successivo ho iniziato la realizzazione delle nuove vetrate che raffigurano: San Giovanni Paolo II, con la Madonna che lo salva dall’attentato (in basso è visibile la mano armata di Ali Agca); quindi san Paolo VI, il beato Giuseppe Toniolo e san Ranieri, patrono di Pisa.
Sgarbi disse: «non le ho viste, ma si saranno sicuramente armonizzate bene».

Sottolineerei questo “armonizzare”, che implica anche l’umiltà di innestarsi in una tradizione.
Esatto: e una tradizione condivisa, perché quando l’arte è viva? Quando diventa paradigma, quando a essa ci si ispira nella produzione successiva e si condividono le forme non tanto del passato (mi sembra limitativo) ma dell’eterno.

Perché invece molta arte contemporanea non riesce a comunicare l'eterno?
Moltissime avanguardie sono nate e alimentano l'esaltazione del nulla e del non-senso, la distruzione del passato o la volontà di andare contro la tradizione... ma abbiamo già distrutto tutto in un secolo e le forme si ripetono.

E qual è la via media tra opporsi dialetticamente al passato e limitarsi a copiarlo?
Cosa dicevano di Giotto? Era «quelli che più trasse ogni figura e atti al naturale», scrive Giovanni Villani (1280-1348). Quello di Giotto, di Brunelleschi, di Piero della Francesca, era il linguaggio del reale. L’occhio umano è fatto per scrutare la realtà: spazializza, riconosce i volti, nota le armonie. Di fronte a questo linguaggio universale non ha più senso parlare di passato o presente, ma del naturale, del reale o, al contrario, di forme di espressione talmente soggettive da rimanere incomunicabili, tant’è che richiedono raffinate e arzigogolate spiegazioni tali che il discorso sull’arte prevale sull’arte stessa.
Nel Novecento troviamo in Annigoni un “Tommaso Moro” del figurativo, un grande resistente quasi solitario in Italia. Pochi sono arrivati alle sue altezze, per esempio Ottavio Mazzonis (1921-2010). Annigoni tenne dura la verità, il linguaggio della realtà. Egli sosteneva che «le opere dell'avanguardia d'oggi siano il frutto avvelenato di un degrado spirituale con tutte le conseguenze di una tragica perdita d'amore per la vita». Ed è stato bollato dalla critica di sinistra come “artista dei potenti”, cosa falsissima visto che tra le sue opere troviamo ritratti anche i barboni.

E poi c’è il tema religioso, che nell'arte di Annigoni non viene strumentalizzato o sfigurato...
Pur non avendo fede Annigoni ne ha esplicitato la grande nostalgia, cercando il divino nelle pieghe dell'umanità: una ricerca anche un po' pessimista, in cui però balenavano raggi di luce. Soprattutto è rimasto fedele al linguaggio di Colui che cercava, di Colui che ha creato la realtà, cioè di Dio. 

Restiamo in tema di arte sacra con il drappellone che Lei ha dipinto nel 2015 per il Palio di Siena. Non si era un po’ annebbiata la dimensione religiosa nell’iconografia del Palio?
In effetti mi fu detto che non avevo rappresentato i cavalli e il popolo festante, secondo la consuetudine inaugurata da Renato Guttuso (1911-1987) che “deverticalizzò” l’iconografia del palio: da allora l’accento si è spostato sulla dimensione sociale, orizzontale, mentre nel mio palio, così come in quello di Giovanni Gasparro, la protagonista è la Madonna. Ho concepito il drappellone come un omaggio alla Vergine protettrice di Siena, con un volto realistico e un manto di derivazione bizantina ispirato alle Madonne di Duccio, su cui si infrangono dei bolidi che minacciano la città. La luna le fa da aureola e intorno 17 lettere in gotico (17 come le contrade!) compongono la scritta: «La tua Siena difendi», che è un verso dell’inno Volgi uno sguardo.
Al di sotto Siena dorme placida in controluce vista dal colle dell’Osservanza, quartier generale di san Bernardino. Il sole con i caratteri IHS è in realtà proprio il monogramma di san Bernardino; sui raggi vi sono poi i simboli delle dieci contrade in corsa e all’interno il miracolo delle Sacre Particole a cui nel 2014-2015 fu dedicato uno speciale Anno Eucaristico in occasione del centenario delle analisi scientifiche che confermarono questo miracolo eucaristico tuttora in atto (le Ostie sono conservate dal 1730 senza decomporsi).

Vorrei dedicare un ultimo cenno alle lettere in gotico: perché è così importante anche la calligrafia nella sua attività?
La calligrafia è l’arte del bello su un dettaglio minimo come la scrittura, di cui oggi abbiamo una concezione solo funzionalistica, impersonale, ma è affascinante recuperare la bellezza e la personalità del proprio segno ortografico.
Sono stato chiamato a far rivivere due arti medievali per eccellenza che sono vetrata e miniatura, che nascono e muoiono sostanzialmente col Medioevo: l’epoca in cui la scrittura e il libro raggiunsero l’apice della bellezza e della cura, perché parlavano di quanto di più importante un uomo potesse pronunciare, cioè la preghiera, la lode di Dio.



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