Fra amore e odio: disputa della Chiesa sul cioccolato
Il lapidario giudizio di Pio V sulla "bevanda degli dei", le argomentazioni sul divieto o ammissione di questo alimento in tempo di digiuno. L'idea che sia un cibo tutto cattolico (il caffè sarebbe protestante), l'amore per esso dei missionari gesuiti e il dibattito al Concilio di Trento. Fino alle uova e ai presepi dei nostri giorni.
LA RICETTA: TORTA AL CIOCCOLATO E ARANCE CANDITE
Tra la foto di papa Francesco sorridente davanti ad un panettone contenente un presepe di cioccolato e il lapidario giudizio di Pio V sulla "bevanda degli dei" sono passati quattro secoli e mezzo. Lasso di tempo nel quale il cioccolato, nella sua relazione con la Chiesa, ha avuto sorti avverse.
Cosa aveva detto Pio V? Sollecitato da più vescovi a pronunciarsi sopra il cioccolato che dava loro dei grattacapi e stimolava i contrasti anche dottrinali, il papa ha chiesto di assaggiarlo. Il suo cuoco Bartolomeo Scappi gliene preparò una tazza. Pio V l'assaggiò e si pronunciò: "È talmente disgustoso, che più che un vezzo immorale, berlo è una punizione. Perciò non c'è nessun bisogno che io lo vieti". E così il cioccolato passò indenne tra le maglie del giudizio del pontefice che aveva scomunicato Elisabetta I.
Ma la "libertà" fu di breve durata. Perché nel Seicento la Chiesa è ridiventata teatro di dibattiti sul cioccolato: questa bevanda rompe il digiuno o no? Molti religiosi delle colonie spagnole - specialmente i gesuiti - preferiscono attenersi all'interpretazione di San Tommaso per il quale solo il cibo solido, non la bevanda, rompe il digiuno. A Roma, il cardinale Brancacio fu un ardente difensore di questa tesi. Allo stesso modo, in Spagna, per tutto il diciassettesimo secolo, il cioccolato all'acqua non è stato considerato dai vescovi come una rottura del digiuno. Al contrario, Antonio de Leon (1636) e il medico Caldera de Heredia (1638) sostenevano che il cioccolato fosse molto nutriente e quindi da evitare nei periodi di digiuno.
Padre Jean-Baptiste Labat (1663-1738), domenicano, missionario e autore di libri di viaggio, era della stessa opinione e rimproverava il lassismo dei missionari delle Indie Occidentali che, a quei tempi, permettevano il cioccolato ai loro fedeli purché non contenesse né latte né uova. Nella prima metà del XVIII secolo, Labat viaggiò molto nel Nuovo Mondo. Nei suoi rapporti, ha scritto dell'importanza del cioccolato come alimento sano per colonizzatori e colonizzati allo stesso modo: “Gli spagnoli e le altre nazioni che li imitano, fanno fette di pan di Spagna o pane semplice che immergono nel cioccolato e mangiano prima di bere il resto. Questo sembra un approccio sensato: le impurità che si trovano nello stomaco si attaccano a questo pane e cioccolato e quindi passano attraverso il corpo più rapidamente". Labat ha anche descritto come nelle parti del Nuovo Mondo attraverso le quali aveva viaggiato, il cioccolato “fosse usato per fare piccole tavolette e un tipo di marmellata o spalmabile [sono forse gli antesignani dei cioccolatini e, rispettivamente della Nutella, n.d.a.]. Sarebbe estremamente auspicabile che l'uso di questo eccellente alimento fosse stabilito qui in Francia, come in Spagna e in tutta l'America, ma non in periodo di digiuno".
Gli autori e le loro pubblicazioni hanno influito molto sul giudizio non solo della popolazione, ma anche della Chiesa. Spesso legavano l'uso dei vari alimenti ai precetti religiosi ed alle religioni stesse
Per esempio, Wolfgang Schivelbusch, scrittore del XX secolo, nella sua Storia dei generi voluttuari sostiene che la cioccolata è strettamente legata al mondo cattolico, mentre il caffè a quello protestante. "La cocción indiana" (il brodo indiano), com’era chiamato il cioccolato liquido, veniva associato alla regalità, all'aristocrazia e alla Chiesa. Quando la Rivoluzione alla fine del Settecento rovescia le istituzioni dell’Ancien Régime, e dal Barocco si passa all’età dei Lumi, quel "brodo" lascia il posto alle bevande calde preferite dai philosophes nei loro salotti illuministi: tè e caffè. Michael D. Coe nel suo studio La vera storia del cioccolato (Archinto Editore), afferma che l'ultimo cioccolato-dipendente sarebbe stato il marchese De Sade.
Tornando al XVI secolo, è stato forse il più "movimentato" per quanto riguarda l'avversità o l'accettazione verso il cioccolato. Oltre al lapidario giudizio di Pio V ricordiamo il sopra citato cardinale Francesco Maria Brancaccio, che, anche lui interrogato sull'argomento dai vescovi, ha esaminato la questione e ha dichiarato “Liquidum non frangit jejunum” (“i liquidi non costituiscono una pausa nel digiuno”-, frase spesso erroneamente attribuita a papa Alessandro VII, il quale si è limitato ad una citazione. "I liquidi" includevano il cioccolato, anche se alcuni vescovi proibivano ancora di berlo nelle loro chiese per altri motivi, il più delle volte pratici: molte dame dell'alta società sollevano portarsi dietro piccole fiasche in argento contenente cioccolato caldo, per combattere il freddo delle chiese e senza preoccupazione alcuna lo sorseggiavano durante la Messa, con somma irritazione dei sacerdoti officianti.
Sempre in quel secolo, al di là delle diatribe tra i detrattori e gli estimatori del cioccolato, si rafforza il ruolo dei gesuiti verso questo alimento. Ne erano grandi conoscitori, essendo dei missionari straordinari e come tali erano venuti a contatto su lunghi periodi con i popoli dell'America del Sud, consumatori di cioccolato.
Non è un caso che, nel 1572, chiamati da Camillo I Gonzaga e dalla di lui moglie Barbara Borromeo per costruire un monastero a Novellara, nei pressi di Reggio Emilia, i Gesuiti vi aprirono una spezieria, nota come "l'emporio del cioccolato", che è rimasta in attività fino al 1773, anno nel quale l'ordine fu soppresso. I Gesuiti importavano il cacao dalle Americhe, dove, come spiegato sopra, erano molto presenti. Alla corte dei Gonzaga se ne faceva un largo uso e i Gesuiti valutarono che il cioccolato in Quaresima era perfetto.
I dibattiti intorno alla spinosa questione toccò perfino il Concilio di Trento, ma poi si decise che con dosi modeste era possibile cibarsi di "chiocolato" senza trasgredire le regole alimentari, allora molto rigide: basta ricordare che Lorenzo Da Ponte, riferisce nelle sue Memorie (scritte nel Settecento) di essere stato cacciato da Venezia perché aveva mangiato del prosciutto di Venerdì.
Nel nostro carnet di viaggi gastronomico-religiosi non deve mancare una visita all'antica spezieria dei Gesuiti di Novellara. Nel suo archivio storico troviamo antiche ricette per preparare il cioccolato risalenti al Seicento. Questa piccola città emiliana, grazie ai Gesuiti, era in gara con Venezia o con altri centri importanti per la produzione del cioccolato.
Oggi, la municipalità ha acquistato la sede della spezieria e il marchio italiano "Chiocolato®, il cioccolato dei Gonzaga" è venduto in tutto il mondo. Presso il Museo della Rocca si trova una delle collezioni più importanti e complete al mondo di antichi vasi e albarelli dei Gesuiti risalenti al XVI secolo.
Ai nostri giorni, il cioccolato ha un posto di pieno diritto anche nella religione. La Chiesa della Vandea proponeva qualche anno fa una campagna di comunicazione molto originale, con 'idea di "ricristianizzare" feste che sono diventate commerciali, come la Pasqua. I poster proponevano alcune semplici formule come "La Pasqua è molto più di un uovo [di cioccolato]", o anche "Le campane non sono tutte fatte di cioccolato"…
Molte aziende propongono dei bellissimo presepi in cioccolato (visitare il sito della Marlieu) oppure anche degli stampi per coloro che desiderano fabbricare in casa le figure del presepe in cioccolato. Altri, confezionano i famosi panettoni con all'interno il presepe di cioccolato, come quello ricevuto da papa Francesco. E questo mette la parola "fine" alla diatriba.