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il caso pescara

Figli tra droga e omicidi, lo sfascio della famiglia tollerante presenta il conto

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Senza ipocrisie: l'odio visto nell'omicidio di Pescara rimanda all'incapacità di mostrare il bene e l'amore in famiglie tolleranti non solo sulle droghe, come emerge dal rapporto sulle tossicodipendenze, ma anche nella scelta delle cattive compagnie.

Educazione 28_06_2024

È davvero difficile provare ad inquadrare con le nostre categorie la violenza cieca e bestiale che ha visto protagonisti i due ragazzi appena sedicenni di Pescara, che hanno ammazzato con 25 coltellate il loro coetaneo Christopher Thomas Luciani per una questione di droga. Come è possibile uccidere un essere umano per appena 250 euro di debito? E poi, dopo averlo lasciato morente tra le sterpaglie di un parco cittadino, andarsene in spiaggia come niente fosse, farsi i selfie e mostrare i muscoli?

È evidente che in questo caso siamo ben al di là delle dinamiche di violenza giovanile, di gang, di disagio. Quei ragazzi erano figli di un carabiniere e di un’insegnante; dunque, da famiglie così “per bene” non ci si aspetterebbe una deriva così abissale verso l’odio. Ma è un puntatore sbagliato, che riproduce letture “classiste” che nel campo dell’educazione sono state superate da un bel po’. Oggi, ad uccidere sono i ragazzi, indipendentemente dalla posizione dei genitori, perché a mancare è proprio un aspetto educativo che può essere assente anche nelle famiglie benestanti, perché il male è dentro il cuore dell’uomo, non nella loro posizione sociale.

Dunque, sgomberato questo fattore, rimane l’elemento droga che è centrale, ma non scatenante. I due ragazzi, stando a quanto riportato nel decreto di fermo del Gip di Pescara, avevano fumato uno spinello, ma non erano strafatti e completamente sganciati dalla realtà. Anzi, che fossero lucidi, lucidissimi è testimoniato dai racconti dei coetanei.

Quindi c’è qualcos’altro che alimenta questo odio capace di spegnere una vita per così poco, per il solo gusto di – scrive il giudice - «vederla soffrire» e al quale poi la droga offre un detonatore devastante.

Ed è da ricercare in una totale assenza di empatia verso l’altro che non può che inquietare.

Come si fa vivere senza un bene, un amore per l’altro essere umano? Significa che quei due ragazzi hanno vissuto per molto tempo senza quel riferimento di bene e di amore, non lo hanno respirato in casa nell’esempio e nella testimonianza e forse non lo hanno nemmeno assimilato nell’insegnamento a scuola. Nessuno ha portato loro ad assorbire nella loro vita la pietà che si genera dal riconoscere il bene dell’altro. Quell’altro che viene così calpestato come un insetto.

È inevitabile tornare, così, alle famiglie. Non per emettere sentenze, né giudizi, ma non si può ipocritamente dire che così fan tutti e che non bisogna giudicare i contesti famigliari in cui un ragazzo è cresciuto per sospendere così il giudizio sulle cose e allargare le braccia.

Certo, la musica trap fa da amplificatore perché indica ai ragazzi un modo di vivere violento e malsano, ma prima o poi il fermarsi a riflettere su che cosa sono diventate le famiglie oggi, ci aiuta per lo meno a orientarci e ad ammettere che anche le famiglie sono malate perché sono in crisi, perché tutto oggi porta a mettere in crisi le famiglie.

Negli stessi giorni in cui la cittadina adriatica veniva sconvolta da questo terribile fatto di cronaca, l’Osservatorio sulle tossicodipendenze ha pubblicato dei dati choccanti sull’uso degli stupefacenti nei ragazzi. Ce ne siamo occupati ieri QUI.

Ma nel report consegnato al Parlamento, c’è anche uno studio pilota rivolto proprio alle famiglie e alla loro percezione e competenza sul fenomeno degli stupefacenti. Quello che emerge non è meno choccante dei dati nudi e crudi sull’uso di droghe.

Su un campione di circa 5000 genitori, l’indagine ha individuato tre grandi problemi che possono essere delle metastasi educative.

Riguardo al consumo di cannabinoidi, si legge che circa la metà dei genitori intervistati ritiene che il consumo di hascisc e derivati vada contestualizzato prima di essere giudicato. Siamo così di fronte a genitori che, invece di allarmarsi di fronte all’uso che i figli fanno delle droghe, provano a minimizzare il fenomeno, cercando di inquadrarlo dentro non si sa bene quale fenomeno giovanile più o meno passeggero.

Dai dati emerge inoltre che chi possiede un elevato titolo di studio è maggiormente tollerante verso alcol e cannabinoidi, mentre si rivela più intollerante verso il consumo di tabacco e sigarette elettroniche. Il salutismo è una delle nuove ideologie dell’epoca moderna, perché se non ci si rende conto che è ben più grave l’uso di droghe di quello del tabacco, significa che la tolleranza ha preso il posto di una falsa accettazione del fenomeno droga, forse perché molti genitori intervistati da giovani facevano così «e in fondo a noi non è successo niente».

C’è poi un ulteriore dato: «A fronte di un 12% di genitori che ancora non si è informato in merito ai rischi, la maggior parte lo ha fatto attraverso televisione, radio e social», che, guarda caso, sono i principali estensori di una visione della droga leggera esclusivamente ricreativa, con campagne martellanti volte alla sua liberalizzazione e delle quali i Radicali alla Marco Cappato e molti partiti di Sinistra danno voce con una responsabilità morale evidente. Campagne che alterano la percezione del rischio, che presentano la droga come fenomeno innocuo ed esclusivamente inserito dentro una responsabilità personale di cui non rendere conto a nessuno. È un problema anche politico e bene ha fatto il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano a mettere in luce nel presentare il rapporto proprio questa tolleranza genitoriale così distruttiva. 

Genitori che minimizzano la droga, la tollerano e la conoscono solo dalle escrescenze comunicative di un sistema mediatico che quella stessa droga la promuove “a diritto” non possono che produrre figli ad altissimo rischio tossicodipendenza. A cui poi i ragazzi, con la mancanza di riferimenti, di bene e di criteri di scelta aggiungono tutto il loro carico di odio che gli deriva da disagi più o meno sopiti.

Due genitori del caso Pescara hanno illustrato un aspetto fondamentale, ma spesso taciuto ai genitori stessi, perché difficile da accettare e da gestire: quello delle cattive compagnie. Il primo è una mamma che ha una figlia coetanea di uno dei due assassini, che era stata a scuola con lui. Ha detto che il giovane un anno fa aveva tentato il suicidio ed era entrato nella spirale distruttiva dell’hascisc, girando per strada come uno zombie; il secondo è un papà di uno dei ragazzi coinvolti nel delitto, ma non accusati di omicidio.

È anch’egli un carabiniere e suo figlio è quello che, parlando col fratello e poi coi genitori, ha fatto appello alla sua coscienza decidendo di raccontare tutto alla Polizia. Dice il papà: «La risposta era rassicurante e per certi versi ingannevole. Mi diceva (il figlio ndr.) “esco con il mio amico, figlio di un avvocato” oppure “mi vedo con quell’altro, figlio di un tuo collega”. Avrei dovuto indagare più a fondo? Avrei dovuto non accontentarmi?». Sono parole che chi è genitore comprende in tutta la loro disarmante verità.

Quando tuo figlio esce con coetanei dei quali tu genitore non hai stima o che non consoci o dei quali hai sentito parlar male, il primo compito di un padre non è quello di «non giudicare», ma quello di verificare i contesti famigliari e se è il caso di impedire anche fisicamente ai propri figli di proseguire nel frequentare certe compagnie. È politicamente scorretto dirlo, ed è difficile per un padre e una madre, perché significa salire con i figli su un ring permanente, accusati di voler entrare nella vita dei figli e orientarne le scelte. Però è l’unica strada, a volte, per illustrare loro che c’è qualcuno che ha a cuore il loro bene, mostrandogli così una via per raggiungerlo, che è fatta anche di rinunce e di messa in ordine delle priorità. Eppure bisognerebbe affermare con fermezza che sulla scelta delle amicizie, i genitori possono e devono avere voce in capitolo e se è il caso l'ultima parola. 

Nessun giovane nasce assassino, ma lo diventa se l’aria che respira è un’aria di morte e le compagnie possono coltivare quest’aria mortifera. Non è un caso che il delitto di Pescara, se da un lato vede due ragazzi responsabili di omicidio, dall’altro vede un’intera compagnia di amici coinvolta, con livelli diversi di implicazione e partecipazione, ma una compagnia che, comunque, dopo il fatto, si è data appuntamento in spiaggia come niente fosse.

Il classico “no”, proverbiale “no”, così “boomer” “no” e sofferto “no” pronunciato dai genitori, non solo alla droga, ma anche alla musica che si ascolta e financo agli amici che si frequentano, costa fatica, provoca urla tra le mura domestiche, fa vivere i genitori in uno stato perenne di inadeguatezza, ma alla fine può essere uno dei pochi “no” in grado di salvare vite e farle germogliare.

Nessuno impara a scuola a farlo. L’unica scuola è quella di un amore verso l’altro impopolare e scomodo, capace di annullare anche se stessi e le proprie comodità. Molti genitori di oggi, feriti dalla vita, impoveriti dalla loro stessa solitudine, generati nella dinamica ultra permissivista del vietato vietare di sessantottina memoria consegnatoci da decenni di propaganda anti familista e libertaria, non sono più capaci di questo amore.